Posts in Mercati oggi
Un altro "complotto degli stupidi"?
 

Dell’argomento ENRON, noi di Recce’d scrivemmo in tempi non sospetti: nessuno quindi ci potrà accusare di avere “rubato un’idea”. L’idea, se c’è un’idea, è tutta nostra, poi altri la hanno ripresa, ma in tempi successivi.

L’idea, se c’è davvero un’idea, è quella di richiamare in causa la vicenda ENRON.

Sottolineiamo ulteriormente i tempi: noi scrivemmo, anche in pubblico, anche nel Blog, a proposito di ENRON quando?

Era il 21 gennaio del 2021. Non del 2022: del 2021, non è un typo.

Gennaio 2021 coincide con il top dell’euforia: banche Centrali, banche globali di investimento, Reti di promotori e wealth manager e family bankers, e persino i poveri robo-advisors, tutti celebravano la grandezza delle Banche Centrali, il boom economico, e i record, su record, su record di Wall Street.

Il 31 gennaio del 2021, invece, noi di Recce’d ci eravamo occupati nel Blog di ENRON.

[per inciso: immaginate quante utili e proficue operazioni sui portafogli si sarebbero potute fare, in quel giorno, il 31 gennaio 2021: ma voi NON le avete fatte, purtroppo … ]

Ieri 30 settembre, il tema è ritornato in prima pagina, su un sito del gruppo Wall Street Journal.

Ed ecco perché ne scriviamo nuovamente.

Che cosa significa ENRON? Perché è utile oggi dedicare del tempo, ad ENRON?

Le ragioni sono innumerevoli, e noi qui non abbiamo tempo, spazio, né voglia di elencarle. Con poco sforzo, ve le troverete da soli.

Vi diamo solo un suggerimento, per la vostra ricerca: c’è un evento, della settimana appena conclusa, che ha alcuni tratti in comune.

Un evento che ha suscitato una enorme attenzione tra gli investitori, ed una notevole reazione dei mercati finanziari.

Allo scopo di risparmiare tempo ed energia, e non ripetere cose che noi avevamo già scritto il 31 gennaio del 2021, oggi vi offriamo in lettura un articolo della rivista Forbes su questo argomento, pubblicato nell’ottobre del 2021.

L’articolo di Forbes offre una splendida ricostruzione dei fatti, che mette in evidenza il tema del “complotto degli stupidi”: in molte occasioni, i danno più grandi sono fatti da chi non capisce ciò che sta facendo.

Notate con attenzione il ruolo giocato dalla stampa, dai media, e soprattutto dagli analisti delle banche di investimento.

Certo: bisogna ammettere che sul piano della gestione di portafoglio, per voi sarebbe stato più utile leggerlo nell’ottobre del 2021. ma in quel mese di ottobre, la grande parte degli investitori stava sul Web a leggere del petrolio a 200$, di Tesla, del Bitcoin e dei Fondi ARK. Ed ovviamente dei record, su record, su record di Wall Street.

Solo i “contrarian” si occupavano di ENRON, a quei tempi.

Il 5 maggio 1998, sei studenti della Cornell University pubblicarono in rete un documento di 23 pagine: il progetto finale per il corso di analisi finanziaria del professor Charles Lee. Il compito era di applicare ciò che avevano imparato in tre mesi di lezioni ai rendiconti finanziari di una società. I sei avevano scelto la Enron, una compagnia energetica texana che in due anni era passata dal 94esimo al 27esimo posto nella classifica delle più grandi aziende statunitensi e da tre dominava la classifica di Fortune delle imprese più innovative d’America. Il suo fatturato cresceva di decine di punti percentuali all’anno. Era, come ha scritto il Wall Street Journal, “la beniamina di Wall Street”.

Eppure ai sei studenti, come ha raccontato uno di loro al New Yorker, “sorsero molte domande”. Il gruppo scoprì che la Enron aveva adottato una strategia molto più rischiosa rispetto alle sue concorrenti e sospettava che la compagnia “stesse manipolando i guadagni”. Concluse che il prezzo delle sue azioni – 48 dollari – era eccessivo. La raccomandazione era di vendere.

PUBBLICITÀ

Forse nessuno lesse il lavoro dei ragazzi della Cornell, forse nessuno gli diede credito. Il titolo continuò a salire per altri due anni, fino a superare i 90 dollari, e all’inizio del 2001 la Enron era la settima azienda degli Stati Uniti. Solo tra la primavera e l’estate seguenti il resto del mondo si rese conto di una delle più grandi truffe nella storia di Wall Street. Una saga di avidità, crimine e presunzione che si concluse, il 2 dicembre 2001, con una bancarotta tra le più grandi della storia. Uno scandalo che portò a decine di condanne, lasciò senza lavoro 20mila persone e mandò in fumo miliardi di dollari di fondi pensione.

The smartest guys in the room

La storia della Enron era cominciata 16 anni prima a Houston, con la fusione tra la Houston Natural Gas e la InterNorth, due compagnie energetiche di medie dimensioni. Il fondatore, Kenneth Lay, era il figlio di un pastore battista del Missouri. Durante gli anni di Reagan era diventato un profeta della deregolamentazione del mercato energetico e uno degli industriali con più influenza su Washington. Aveva rapporti con politici democratici e repubblicani ed era, soprattutto, amico intimo della famiglia Bush. Nel 1992 fu a capo del comitato per la rielezione alla presidenza di George H. W. Bush. E quando il figlio George W., che chiamava Lay “Kenny boy”, corse per la Casa Bianca nel 2000, la Enron fu tra i suoi principali finanziatori e gli mise a disposizione un jet aziendale.

PUBBLICITÀ

Nel 1990 Lay scelse come braccio destro Jeff Skilling, un consulente della McKinsey con cui aveva lavorato tre anni prima. Skilling trasformò la Enron: da una compagnia energetica tradizionale a una sorta di Borsa del gas naturale, che trattava l’energia come uno strumento finanziario da scambiare, al pari di azioni e obbligazioni.

Il libro The Smartest Guys in the Room: The Amazing Rise and Scandalous Fall of Enron (“I tipi più furbi nella stanza: la straordinaria ascesa e la scandalosa caduta della Enron”), dei giornalisti Bethany McLean e Peter Elkind, descrive Skilling come un manager con una concezione darwiniana del mondo. Una visione che si concretizzò nel Performance review committee (Prc): un processo in cui ogni dipendente veniva valutato dai colleghi con un punteggio da 1 a 5. Il 10% di impiegati che otteneva i giudizi peggiori veniva licenziato.

I beniamini di Wall Street

Negli anni ’90 la Enron si allargò in breve dal gas naturale a settori come l’elettricità, l’acqua, addirittura la banda larga e la carta. I suoi progetti di espansione internazionale – dalle concessioni idriche in Inghilterra e Argentina alla costruzione di centrali in India e in Brasile – contribuirono a far crescere il fatturato a un tasso medio del 65% annuo tra il 1996 e il 2000. Tra il 1999 e il 2000, in particolare, le entrate passarono da 40 a 101 miliardi di dollari. Fino a poche settimane prima della bancarotta, la Enron si dichiarava convinta di potere raddoppiare quella cifra per il 2001: con un fatturato di circa 200 miliardi, sarebbe stata la seconda azienda d’America, dopo Walmart.

Il titolo seguiva lo stesso andamento a Wall Street. Il valore delle azioni aumentò in modo quasi ininterrotto tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del XX secolo. Perfino nel 2000, l’anno dello scoppio della bolla delle dot com, il titolo salì dell’87%, contro il -10% della media dell’indice Standard & Poor’s 500.

Un castello di carte

Eppure già nel 1999, ha scritto la giornalista Mimi Swartz sul Texas Monthly, a Houston cominciò a circolare una voce: la Enron non era che “un castello di carte”. Quella frase “si sentiva ai distributori d’acqua delle banche del centro, o alle cene con ospiti che lavoravano per la concorrenza. In genere, chi pronunciava quelle parole scuoteva la testa con l’aria di chi ne sa, ma è abituato a essere ignorato”.

Quel castello di carte, come hanno rivelato indagini, libri e documentari sul caso, si fondava su alcuni stratagemmi. Uno si chiamava mark-to-market ed era un sistema di contabilità adottato, in genere, dalle società di trading finanziario. In breve, prevede che, quando un contratto viene sottoscritto, i ricavi attesi vengano subito messi a bilancio. “In pratica, i dirigenti dicevano: ‘Tra dieci anni venderemo l’energia di questo impianto per X dollari al chilowatt’. E non c’era nessun modo di dimostrare che sarebbe stato davvero così”, ha sintetizzato l’ex dirigente della Enron Mike Muckleroy nel documentario candidato all’Oscar Enron – L’economia della truffa.

La Enron investì, per esempio, in una centrale da miliardi di dollari in India e registrò le entrate che pensava di realizzare negli anni successivi. Soldi che, in realtà, non arrivarono mai: gli smartest guys in the room non avevano calcolato che gli indiani non potevano permettersi di comprare quella energia. Nel complesso, l’investimento fece perdere alla Enron circa 900 milioni di dollari.

Un altro stratagemma – il più complicato – era l’uso delle special-purpose entity (s.p.e.), o società di progetto. Il giornalista e sociologo Malcolm Gladwell lo ha spiegato così sul New Yorker: “La vostra azienda non se la passa bene. Se chiedete a una banca un prestito da 100 milioni di dollari, quella banca vi imporrà un tasso di interesse altissimo, o non ve lo concederà affatto. Avete però in mano alcune concessioni petrolifere che, nei prossimi cinque anni, frutteranno quasi di sicuro 100 milioni di dollari. Allora le cedete a una s.p.e. che avete costituito con investitori esterni. La banca presta quindi i 100 milioni alla s.p.e., che li gira a voi”.

All’epoca, queste operazioni non dovevano essere registrate in bilancio. “Una società può così raccogliere capitale senza indebitarsi. E poiché la banca è quasi certa che le concessioni genereranno i soldi per ripagare il debito, è disposta a concedere un tasso di interesse basso”.

La Enron adottò il sistema delle s.p.e., che era legale e molto diffuso. Ma introdusse un paio di varianti: trasferiva a queste società asset molto meno affidabili delle concessioni petrolifere e, soprattutto, non coinvolgeva investitori esterni. Le s.p.e., al contrario, erano guidate da dirigenti della stessa compagnia. “La Enron non vendeva parti dell’azienda a entità esterne, ma a se stessa”, ha scritto Gladwell. “Una strategia che non era solo discutibile dal punto di vista legale, ma anche straordinariamente rischiosa”.

“Brucia, piccola, brucia!”

La contabilità creativa, però, non sempre bastava a raggiungere obiettivi trimestrali che il dipartimento di Giustizia americano ha definito “irrealistici e irraggiungibili, in linea con le aspettative degli analisti e non con risultati reali o ragionevoli”. Fissati, cioè, per rafforzare l’immagine di una compagnia in piena espansione. L’ex dipendente Max Ebert ha ricordato in Enron – L’economia della truffa: “Sembrava sempre che raggiungere gli obiettivi fosse impossibile. Eppure, come per miracolo, ci riuscivamo sempre. Se domandavamo come fosse possibile, il nostro capo rispondeva sempre con una sola parola: ‘California’”.

Alla fine degli anni ’90, la Enron era entrata nel mercato elettrico della California, liberalizzato nel 1996 su pressione delle compagnie energetiche. Tra il 2000 e il 2001, lo stato fu colpito da decine di blackout non giustificati dallo stato della rete. Registrazioni emerse dopo la bancarotta rivelarono che la Enron aveva fatto pressione sugli addetti di varie centrali per inventare attività di manutenzione e causare interruzioni del servizio. La chiusura degli impianti creava così carenze artificiali, che facevano salire il prezzo dell’energia. In una conversazione registrata durante un incendio che causò un blackout, emersa durante le inchieste, un trader diceva: “Brucia, piccola, brucia! È bellissimo”. Un altro si augurava “un bel terremoto” che facesse “galleggiare la California sul Pacifico”.

La crisi energetica ebbe come effetto collaterale anche la distruzione della carriera politica del governatore della California, Gray Davis. Nel 2001, Davis era considerato uno dei favoriti per la nomination democratica alle presidenziali del 2004, in cui avrebbe sfidato proprio l’amico di Ken Lay, George W. Bush. Nel 2003, invece, i californiani votarono per rimuoverlo dal suo incarico. Per sostituirlo scelsero un repubblicano: la Enron aveva contribuito all’elezione di Arnold Schwarzenegger.

“Grazie molte, s*****o”

Nel luglio del 2000, ha scritto Gladwell sul New Yorker, un giornalista della redazione di Dallas del Wall Street Journal, Jonathan Weil, ricevette una dritta da una fonte del mondo delle banche d’investimento: “Dai un’occhiata ai conti della Enron”. Weil lo fece e concluse che, se si eliminavano dai conti della Enron le entrate non ancora realizzate, ma già a bilancio grazie al sistema mark-to-market, la compagnia stava perdendo soldi.

L’articolo di Weil non ebbe conseguenze immediate, ma finì sotto gli occhi di James Chanos, un investitore specializzato in vendita allo scoperto, cioè in scommesse sul crollo di titoli. Chanos cominciò a vendere allo scoperto azioni della Enron e, qualche mese più tardi, suggerì alla giornalista di Fortune Bethany McLean di studiare i bilanci della società. Nel marzo 2001 McLean, in un articolo intitolato Il prezzo delle azioni della Enron è troppo alto?, paragonava la Enron a “una scatola nera”, in cui era impossibile ricostruire i flussi di denaro.

L’articolo di Fortune ebbe maggiore risonanza di quello del Wall Street Journal. Pochi giorni dopo fu richiamato, durante un’audioconferenza, da un analista che rinfacciò a Skilling di guidare “l’unica istituzione finanziaria che non pubblica un bilancio o un resoconto dei profitti”. Skilling, replicò: “Grazie molte, apprezziamo la domanda… stronzo”.

La fine

Se la Enron aveva impiegato 16 anni per diventare una delle più grandi aziende al mondo, le bastarono pochi mesi per dissolversi. Le voci sulla sua contabilità si intensificarono, il titolo iniziò a scendere in primavera e continuò per tutta l’estate. Non smise nemmeno quando, il 14 agosto, Jeff Skilling si dimise all’improvviso. Il 9 settembre 2001, il New York Times parafrasava Shakespeare e titolava C’è del marcio nello stato della Enron, mentre a ottobre il Wall Street Journal pubblicava altri articoli sugli affari più opachi della società. La Securities and exchange commission – equivalente della Consob italiana – avviò un’indagine. Negli stessi giorni, la società di revisione di bilancio ingaggiata dalla Enron, Arthur Andersen, tritava una tonnellata di documenti.

Quando anche l’ipotesi di un salvataggio tramite la vendita in saldo a un’altra compagnia energetica sfumò, alla fine di novembre, le agenzie di rating ridussero la valutazione del titolo della Enron a ‘spazzatura’: le azioni valevano ormai pochi centesimi. Il 1 dicembre, il consiglio di amministrazione della Enron votò all’unanimità per dichiarare bancarotta. I dipendenti furono informati la mattina del 3 dicembre. Ebbero 30 minuti per lasciare la sede.

I processi

Nel gennaio 2002 i giornali americani diedero la notizia che prima del collasso, mentre cercavano di rassicurare dipendenti e mercati, i dirigenti della Enron avevano venduto azioni per circa un miliardo di dollari. Il deputato Byron Dorgan, membro della commissione d’inchiesta del Congresso, disse: “Sul Titanic il capitano è almeno andato a fondo con la nave. Nel caso della Enron, il capitano prima ha dato un bonus a se stesso e ad alcuni amici, poi è salito con loro sulle scialuppe di salvataggio e ha gridato a tutti gli altri: ‘Non preoccupatevi, andrà tutto bene’”.

Dopo cinque anni di processi, in cui furono emesse condanne per decine di persone, Kenneth Lay fu riconosciuto colpevole di sei capi d’imputazione e rischiava fino a 45 anni di carcere, ma morì d’infarto prima di conoscere la pena. Jeff Skilling fu condannato a 24 anni e 4 mesi, ridotti nel 2013. È uscito di prigione nel febbraio 2019 e, secondo la Reuters, in estate ha lanciato una nuova società di investimenti nel settore dell’energia.

La Enron trascinò a fondo anche la Arthur Andersen ed è ritenuta responsabile, in modo indiretto, di altri fallimenti, come quelli dei supermercati Kmart.

L’eredità

Un anno dopo il crollo della Enron, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman disse che in futuro “non le stragi dell’11 settembre, ma lo scandalo Enron” sarebbe stato visto come “la grande svolta nella storia degli Stati Uniti”. Nel 2002, in effetti, il Congresso americano approvò una legge che imponeva una maggiore trasparenza sulle scritture contabili. Oggi si può dire che quella norma non è bastata.

Nel 2001 la Enron aveva asset per 65 miliardi di dollari e la sua bancarotta fu la più grande della storia americana. In seguito, ben sei aziende l’hanno superata. Dopo il crac da quasi 700 miliardi di dollari della Lehman Brothers, Sam Buell, professore di legge dell’università di Duke che aveva rappresentato l’accusa nel caso Enron, disse che “gli imbrogli erano dello stesso genere. Sembra che nessuno abbia imparato la lezione”.

Il fenomeno, d’altra parte, non è solo americano. Wirecard, una società tedesca di pagamenti elettronici che è stata dichiarata insolvente nel settembre 2020, si è meritata il soprannome di “Enron tedesca” per le sue irregolarità contabili. Jim Chanos, l’investitore che aveva scommesso sul crac della Enron, ha incassato 100 milioni di dollari dalla vendita allo scoperto delle azioni della Wirecard.

“Il complotto degli stupidi”

Il giornalista del New York Times Kurt Eichenwald, nel libro Conspiracy of Fools (“Il complotto degli stupidi”), ha presentato la vicenda sotto una luce diversa. Secondo Eichenwald, ad affondare la Enron non fu la disonestà, ma l’incompetenza. Nemmeno i dirigenti della società, a suo giudizio, erano in grado di padroneggiare un meccanismo complesso come quello che avevano messo in piedi. Se il sistema è durato così a lungo, è stato soprattutto perché nessuno, o quasi, aveva provato a studiare davvero i bilanci.

Non lo fecero i giornalisti, che crearono il mito degli smartest guys in the room e, in caso di dubbi, accettavano alla cieca le spiegazioni di Lay e Skilling. Non lo fecero i contabili e gli avvocati pagati dalla Enron, che temevano di perdere un cliente da un milione di dollari a settimana. E non lo fecero le banche, che facevano affari con la società e dichiararono poi di non sapere nulla delle sue manipolazioni.

I pochi che provarono a sollevare dubbi non furono ascoltati. John Olson, un analista della Merrill Lynch, espresse perplessità sull’operato della Enron già negli anni ’90. La Enron, per ammissione del suo chief financial officer, escluse allora la banca da un affare, per “comunicare in modo forte che cosa pensasse l’azienda”. Poco dopo, Olson rimase senza lavoro.

All’inizio del 2001 un dipendente della Enron, dopo avere studiato per un anno i bilanci, prospettò al tesoriere dell’azienda uno scenario molto vicino a quello che si sarebbe realizzato pochi mesi più tardi. Il tesoriere gli promise di approfondire la questione, poi partì per le vacanze e non aprì mai più il rapporto. L’ultima possibilità di salvare la Enron, secondo Eichenwald, “morì quel giorno. Con il doppio dei crimini e la metà dell’incompetenza, la compagnia sarebbe sopravvissuta”.

Come ha sostenuto Gladwell, del resto, se sei universitari riuscirono a trovare il marcio nei conti della Enron già nel 1998, lo stesso avrebbero potuto fare investitori e analisti. “Tutto era in piena vista”, ha detto il loro professore alla Cornell, Charles Lee. “Per chi aveva i giusti strumenti e le giuste motivazioni, non c’era alcun mistero”.

Mercati oggiValter Buffo
Le buone notizie per la strategia di investimento ed i portafogli modello
 

Rileggiamo quello che si leggeva, nelle conversazioni tra gli operatori dei mercati finanziari, venerdì 16 settembre, un’ora prima dell’apertura della Borsa a New York.

I futures sugli indici azionari puntano a un nuovo calo questa mattina dopo le ultime quattro sedute difficili, con il mercato che si appresta a registrare la quarta settimana di ribasso sulle ultime cinque. L'indice di riferimento S&P 500 (SP500) è in ribasso del 4% nell'ultimo giorno di contrattazioni della settimana, mentre il Nasdaq (COMP.IND) e il Dow (DJI) sono in calo rispettivamente del 4,6% e del 3,7%. È anche il quadruplo giorno delle streghe, che si riferisce alla scadenza simultanea di futures su indici di mercato, futures su azioni, opzioni su indici di mercato e opzioni su azioni. L'evento può portare a un aumento della volatilità, che non è la ricetta migliore nel contesto attuale.

Cattive notizie: FedEx (FDX) ha fatto rabbrividire i trader nella tarda serata di giovedì, dopo aver lanciato l'allarme sulla debolezza macro e aver ritirato la sua guidance per l'intero anno. L'amministratore delegato Raj Subramaniam ha dichiarato di aspettarsi che l'economia entri in una fase di recessione mondiale e di dover attuare iniziative di riduzione dei costi (chiusura di 90 uffici e cinque sedi aziendali, congelamento delle assunzioni, riduzione dei voli, ecc. Le azioni della FDX sono crollate di quasi il 20% e lo stesso sentimento è stato riscontrato anche altrove, con l'azienda che funge da barometro per "gli affari di tutti gli altri".

"La Federal Reserve potrebbe trovarsi di fronte a una scelta difficile", ha osservato Anastasia Amoroso, Chief Investment Strategist di iCapital. Prima dicevano: "Cercheremo di avere un atterraggio morbido e di far scendere l'inflazione". Ora potrebbero dover fare una scelta. O un atterraggio morbido o un calo dell'inflazione. In altre parole, potrebbero dover organizzare un maggiore giro di vite sulla crescita economica per far scendere l'inflazione".

A seguire: Giovedì i tori hanno difeso nuovamente l'importante livello di supporto dell'S&P a 3.900, ma una chiusura al di sotto di questo livello oggi potrebbe aprire le porte a ulteriori ribassi, soprattutto nella tradizionalmente debole seconda metà di settembre.

Tutti i nostri lettori sanno che, alla fine della seduta di ieri, venerdì, l’indice della Borsa di New York ha poi chiuso SOTTO quel livello di 3900 punti. Anche se, deve essere detto, POCO sotto i 3900 punti.

Un calo delle Borse che è spiegato anche a causa dei dati che sono stati comunicati al mercato dalla Società Fed Ex, di cui sicuramente siete già informati.

La questione rimane quindi da risolvere, e tutti lo vedremo già dalla seduta del lunedì 19 settembre. Di questa questione, in questo Blog, Recce’d ha scritto fornendo qualificate analisi sia sette giorni fa, sia quattordici giorni fa, sia trenta giorni fa. Anticipando ai propri lettori questi tipo di alti-e-bassi.

Resta, guardando oltre gli alti-e-bassi, un fatto: la caduta degli indici, alla Borsa USA, in data 13 settembre 2022 è stata la più ampia (in una sola seduta) dai tempi del COVID (immagine che segue).

Un segnale: su questo, non ci sono dubbi.

Vogliamo ragionare, in questo Post, sulla strategia di gestione e sui portafogli modello: come si interpretano, nell’ambito di una corretta strategia di gestione del portafoglio titoli, questi segnali che arrivano dai mercati finanziari?

E’ opportuno rivedere le proprie previsioni? Le proprie aspettative dal portafoglio titoli?

Vanno rettificate le stime, le previsioni di rendimento dei singoli asset presenti nel portafoglio?

Oppure: dobbiamo modificare le stime dei rischi che accompagnano gli asset che abbiamo oggi nei nostri portafogli modello?

E che cosa è cambiato, per gli asset finanziari che oggi NON si trovano nel portafoglio, ma che stiamo monitorando per un futuro inserimento?


Ovviamente, Recce’d nel Post che state leggendo non potrà fornire una risposta nel dettaglio: i metodi e la strategia di gestione sono proprietari ed esclusivi.

Allo stesso tempo, e come sempre è stato, leggere questo Post vi sarà utile: Recce’d, come sempre, fornirà elementi concreti, che potranno immediatamente aiutarvi, sia nelle vostre analisi, sia nelle vostre valutazioni, sia infine nelle vostre scelte di investimento che traducono in pratica la vostra strategia di investimento.

Nell’immagine qui sopra, la presentazione di un articolo del Financial Times mette alla vostra attenzione tre diversi elementi, e precisamente

  1. l’instabilità

  2. gli errori dei decisori della politica (economica e anche non economica)

  3. la situazione di forte stress sui mercati finanziari

per arrivare a quel conclusione? Che “per i mercati e le economie si profila un periodo di instabilità” e che “ci troveremo tutti come su un ottovolante”.

Vi facciamo notare che il Financial Times qui scrive che il periodo di instabilità, per le economie e per i mercati, NON è quello appena passato, ma è quello che sta arrivando.

E su questo, oggi ci sono davvero pochi dubbi.

Voi lettori, come vi state preparando?

E come state preparando il portafoglio di investimenti finanziari, a questa sfida che ci attende, e che è la sfida più difficile degli ultimi 50 anni, per tutti gli investitori'?

Sia chiaro: non c’è solo il lato negativo.

E’ vero che sono aumentati, a dismisura, i rischi (che molti di voi oggi neppure riescono ad immaginare). Ma sono aumentati, a dismisura anche i potenziali guadagni per chi investe sugli asset finanziari.

Questa, è la buona notizia: sono queste, le buone notizie che, quasi ogni giorno, ci vengono portate dai dati e dalle nostre analisi successive.

A seconda della strategia di portafoglio che avete scelto, a seconda dello scenario sulla base del quale avete costruito il vostro portafoglio di asset finanziari, a seconda delle stime di rendimenti e di rischio sulla base delle quali avete fondato le vostre scelte di investimento, un certo particolare dato può essere letto come una notizia “buona” oppure come “cattiva” notizia.

Un esempio: avete basato le vostre scelte sulla “speranza” (che NON è una strategia), se siete andati dietro ai suggerimenti della Rete di promotori o della Banca, se avete abboccato alle (solite) esche, quelle di Goldman Sachs, di UBS, di BNP Paribas, e di JP Morgan (nomi fatti al solo scopo di esemplificare, perché poi tutte le banche di investimento ripetono in coro sempre le medesime storielle inventate)? Allora in quel caso per voi lo scorso martedì 13 è stato un “martedì nero”.

Per tutti gli altri, per tutti quelli che si erano già chiariti che il “pivot” non è mai esistito, per tutti quelli che avevano già concluso che quella del “soft landing” era l’ennesima favoletta slegata dalla realtà, martedì 13 settembre 2022 è stata una giornata luminosa, e il valore dei loro asset finanziari è salito.

Non esistono notizie che siano per tutti “cattive”: esistono invece investitori “cattivi”, analisi “cattive”, suggerimenti “cattivi” e consulenti “cattivi”, perché agiscono NON nell’interesse del Cliente bensì per massimizzare i guadagno delle loro Reti.

Tutto dipende da voi: da chi scegliete e da come siete posizionati.

Veniamo alla pratica delle scelte di investimento.

Se in questo preciso momento desiderate mettere voi stessi, ed il vostro portafoglio, in “favore di vento”, oggi diventa prima di tutto capire “da quale parte spinge il vento”. per fare questo, dovete oggi stesso realizzare quale è la realtà intorno a voi, sui mercati finanziari ma soprattutto FUORI dai mercati finanziari.

A questo scopo, vi potrà essere utile rileggere almeno alcuni dei Post che Recce’d ha pubblicato nel corso degli ultimi 24 mesi: Post che, anche se letti a posteriori, vi saranno utilissimi, per comprendere perché ci ritroviamo proprio in questo punto, nel settembre 2022, e quali sono le cause che hanno prodotto la situazione attuale.

Come diceva già il brano da noi selezionato, e riprodotto più in alto, oggi la situazione non è (non è mai stata) quella di un “soft landing che accompagna il calo dell’inflazione”. Le due cose sono tra di loro in alternativa, ed oggi (con grande ritardo) lo hanno compreso persino le Banche Centrali.

Nell’immagine che segue Mohamed El Erian dice che:

  1. il futuro oggi preoccupa, ma la via di uscita non è quella di “lasciare correre l’inflazione”, scelta che causerebbe molti danni per molte aziende e famiglie

  2. ma la seconda e la terza via di uscita sicuramente anche loro provocherebbero danni ingenti

  3. i danno che oggi DEVONO essere presi in esame PRIMA di ogni altro sono quelli al tessuto SOCIALE e NON quelli ai mercati finanziari; è DOVEROSO proteggere le fasce più deboli della Società, se si intende evitare un disastro peggiore di quello che già hanno fatto

Sono moltissimi gli investitori, in tutto il Mondo, che proprio NON VOGLIONO accettare questa verità: ma verranno COSTRETTI ad accettarla.

Sono moltissimi oggi, quegli investitori che preferiscono chiudere gli occhi, e continuare a SOGNARE: disperatamente, voglio che la FESTA continui.

Quando si sveglieranno si renderanno conto che NON c’è mai stata alcuna festa.

Spostiamo un po’ il discorso: avviciniamoci al piano della strategia di portafoglio e delle scelte di investimento.

Risulta del tutto evidente, anche a chi è meno attento e non segue ogni giorno gli alti-e-bassi dei mercati finanziari, che oggi le Borse sono totalmente allo sbando: salgono e scendono, ma senza alcuna ragione. Si sprecano parole e commenti, che tirano in ballo opzioni call, opzioni put, Delta e Gamma, posizioni SHORT e LONG dei gestori dei Fondi.

Si tratta di parole senza la minima rilevanza, nell’ambito di una strategia di investimento: è il classico cla-bla degli operatori di mercati, che si moltiplica ogni volta che gli operatori di mercato sono nel PANICO.

Come sono da mesi a questa parte.

La prossima mossa degli indici di Borsa arriverà quando verrà IMPOSTA da altri segmenti del mercato finanziario internazionale. Come, ad esempio, quel segmento che noi abbiamo messo in evidenza con l’immagine precedente.

Dai diversi segmenti di mercato, però, arrivano segnali che poi debbono essere interpretati: la gestione dei portafogli modello, come pure quella dei portafogli di investimento dei lettori del sito, richiede di prendere tutti questi segnali, sistemarli ed analizzarli, e grazie a questi segnali costruire poi un quadro coerente e futuribile.

Ed eccoci con il nostro (solito) contributo concreto alla gestione del vostro portafoglio.

Vi interesse rendervi conto (finalmente) di dove vi trovate oggi e di cosa sta accadendo intorno a voi?

Siete interessati a capire quali sono i rendimenti potenziali dei diversi asset finanziari, da qui a fine 2022? E poi nel 2023?

Volete stimare nel modo più corretto i rischi di ribasso impliciti in ognuno degli asset finanziari che avete in portafoglio?

Vi interessa, di disporre finalmente di avere una strategia di investimento dotata di basi solide, e che vi porta a fare scelte consapevoli e produttive?

Oppure preferite state lì fermi, a prendere ceffoni come quelli dello scorso martedì 13 settembre?

Ecco la buona notizia: non è difficile.

Vi sarà sufficiente leggere, e rileggere, le parole che trovate nell’immagine precedente, nel riquadro rosso.

Che sono scritte in modo chiaro e sintetico: parole che, nella sostanza, ripetono ciò che Recce’d ha scritto (in modo sicuramente MENO efficace ed elegante e sintetico) per tutti gli ultimi 24 mesi.

Per rendere massima la concretezza dell’aiuto che Recce’d oggi regala a tutti gli investitori, noi abbiamo investito altro tempo per tradurre l’intero articolo dal quale quella frase è tratta.

Lo potete leggere qui di seguito: come vedete, anche questo articolo annuncia le “buone notizie” di cui Recce’d vi aveva parlato già in agosto.

Leggiamo dall’articolo: “Le buone notizie risiedono nella duplice prospettiva che le economie si lascino alle spalle un lungo periodo di inefficiente allocazione delle risorse e che venga restituito valore ai mercati pesantemente distorti da un intervento troppo prolungato delle banche centrali.“. Oggi, nel settembre 2022, lo scrive (addirittura) il Financial Times. che certamente non è un “contrarian”. Come cambiano velocemente, le cose del Mondo!

Quante opportunità vi siete persi per strada, scegliendo di non seguire i nostri indirizzi, due anni fa? Senza aspettare di leggerlo sul Financial Times?

Per completare il nostro supporto alla gestione di portafoglio, noi oggi dobbiamo richiamare anche il tema che Recce’d ha già messo in evidenza in più occasioni precedenti: e precisamente il tema del “cambiamento di regime”. Tutte le scelte vanno effettuate avendo bene a mente che siamo in una fase di passaggio, fuori dalla Vecchia Era ed verso una Nuova Era, come dice ad esempio l’immagine di Bloomberg che trovate qui sotto.

Non solo: per fornirvi un aiuto completo a pratico, necessariamente dobbiamo richiamare un terzo tema, che viene anche lui citato dall’articolo che leggerete più sotto: si tratta di uno dei dei temi sui quali è fondata la nostra strategia di gestione del portafogli modello.

Nell’articolo infatti si scrive dello “scontro tra il recente eccesso di ottimismo dei mercati e la realtà economica e politica”. Di questo, noi vi abbiamo scritto già due anni fa, nel 2020, e poi nel 2021 e nel 2022. Oggi, ci siamo.

Chiudiamo quindi il nostro Post parlando di BUONE NOTIZIE: ve li ricordate, i nostri numerosi interventi sul tema della “riconciliazione” tra mercati finanziari e realtà? Bene, amici lettori: forse nessuno vi aveva ancora informato, ma quel processo è avviato, è già in movimento. E questa è la più buona delle notizie, per tutti noi investitori e anche per le future generazioni.

Il sistema ha reagito: adesso ha reagito e si oppone ad insensate politiche che creano instabilità (e spazzerà via certi … detriti del passato).

Sicuramente, ci saranno nel prossimo futuro di tutti noi passaggi difficili, emozionanti, momenti di apprensione e forse dolorosi. E per qualcuno tra gli investitori, anche danni importanti.

Ma chi si è reso conto di dove stiamo oggi, e perché ci stiamo, potrà ricavare importanti guadagni dai propri investimenti, contribuendo attivamente in questo modo alla indispensabile riconciliazione di cui Recce’d da anni vi scrive e vi parla.

Vi lasciamo adesso alla lettura delle tante BUONE NOTIZIE di questo settembre 2022.

Lo sbalorditivo cambiamento dell'umore e dei prezzi del mercato nell'ultima settimana testimonia l'instabilità di fondo dell'attuale contesto per i responsabili politici e gli investitori. Un'instabilità che si intensificherà nei prossimi mesi.

Il catalizzatore di quella che molti hanno definito la "carneficina dei mercati" di martedì - perdite dal 3 al 5% in un solo giorno nei principali indici azionari statunitensi - è stato, ovviamente, un pessimo rapporto sull'inflazione. I dati di agosto degli Stati Uniti sono stati deludenti sotto molti punti di vista, tra cui, soprattutto, l'aumento su base mensile e l'ampliamento dei fattori che determinano l'inflazione di fondo.

A giudicare dalla drammatica impennata dei rendimenti dei titoli di Stato a 2 anni e dai movimenti in altri settori dei Treasury, i mercati si sono ritrovati a cercare di prezzare un momento di "HFL", ossia tassi più alti, più rapidi e più lunghi.

Questa volta, il ritardo con cui gli investitori hanno accettato un'inversione più rapida dell'approccio altamente favorevole ai mercati da parte delle banche centrali ha avuto poco a che fare con la precedente inclinazione dei responsabili delle politiche a indebolire il messaggio politico anti-inflazione. Questa tendenza aveva in precedenza contribuito a mantenere viva la speranza di un atterraggio morbido immacolato e di un rapido allontanamento da un regime di liquidità restrittivo.

Ma dal discorso di fine agosto a Jackson Hole del presidente della Fed Jay Powell, i funzionari della banca centrale statunitense sono stati insolitamente coerenti nell'affermare il loro impegno incondizionato a combattere un'inflazione inaccettabilmente alta, nonché nel trasmettere le implicazioni politiche.

Per i responsabili delle politiche e per gli investitori, nei prossimi mesi ci saranno altre realtà da digerire.

In primo luogo, la fragilità della crescita globale sta aumentando. L'Europa deve ancora integrare la protezione delle famiglie dai prezzi elevati, dettata da ragioni fiscali, con un approccio ordinato all'allocazione dell'energia che riduca al minimo i danni strutturali immediati e a lungo termine per l'economia.

La Cina deve ancora trovare una via d'uscita politicamente accettabile dalla trappola di Covid "vite contro mezzi di sussistenza" che, senza progressi nella vaccinazione efficace a livello nazionale, mina il contributo del Paese alla domanda e all'offerta nell'economia globale. Persino gli Stati Uniti, la più forte delle economie di importanza sistemica, si trovano ad affrontare venti interni di crescita. E tutto questo in un momento in cui le pressioni inflazionistiche, e la distruzione della domanda che ne consegue, si dissolveranno solo lentamente.

Con l'evolversi di questa situazione, le incoerenze del mercato diventeranno più difficili da sostenere. Con l'aumento dei rendimenti a breve termine, il vantaggio TINA (There Is No Alternative) che le azioni hanno posseduto a lungo viene eroso. Le obbligazioni a lunga scadenza offrono ora una migliore protezione contro un forte rallentamento globale e uno stress del sistema finanziario. Inoltre, i rischi economici e finanziari di un dollaro così forte, sia a livello nazionale che, soprattutto, internazionale, sono più difficili da evitare.

Non c'è bisogno di dire che questo non è un buon ambiente per le banche centrali per giocare a rimpiattino. Il rischio di un ennesimo errore politico, già scomodamente alto, sta aumentando.

Visti i numeri dell'inflazione, la Fed non ha altra scelta se non quella di anticipare la risposta politica, prevedendo un terzo rialzo consecutivo di 0,75 punti percentuali, senza precedenti, la prossima settimana. Ciò si accompagnerà a un'accelerazione del ritmo di riduzione del bilancio da parte della Fed e, sospetto, a una revisione al rialzo delle previsioni per il picco di questo ciclo dei tassi d'interesse.

Nel frattempo, la Banca Centrale Europea deve incorporare le implicazioni dei notevoli sforzi di politica fiscale per compensare l'impatto della crisi energetica sulle famiglie e sulle imprese.

La naturale inclinazione ad ammorbidire l'orientamento della politica monetaria di fronte alla fragilità della crescita globale e alla preoccupante instabilità dei mercati finanziari si scontra con la realtà di un'inflazione persistentemente elevata e con l'urgente necessità di ripristinare la credibilità della politica. In effetti, l'esitazione della banca centrale non farebbe altro che aggravare la portata e la complessità delle sfide economiche e politiche del 2023.

Le turbolenze di mercato di questa settimana non riguardano solo lo scontro tra il recente eccesso di ottimismo dei mercati e la realtà economica e politica. Si tratta anche di un riflesso del fatto che gli investitori stanno meglio affrontando la complessa incertezza che si pone di fronte sia ai responsabili politici sia al loro stesso approccio all'asset allocation.

Le buone notizie risiedono nella duplice prospettiva che le economie si lascino alle spalle un lungo periodo di inefficiente allocazione delle risorse e che venga restituito valore ai mercati pesantemente distorti da un intervento troppo prolungato delle banche centrali. Affinché tali prospettive si realizzino, le economie e i mercati devono ancora affrontare la maggiore possibilità di errori politici, lo stress del mercato e le trappole comportamentali che tipicamente accompagnano le oscillazioni del sentiment degli investitori.

Mercati oggiValter Buffo
Longform'd. Arriva lo spike: i mercati finanziari dell'estate 2022
 

Ci sono segnali, in arrivo dai mercati finanziari, che ci portano a concludere che la fase di mercato estiva, nel 2022, si presenta come adatta, ed anzi adattissima, ad uno “spike”.

Con il termine “spike” gli operatori di mercato intendono un movimento di uno o più indice di mercato, di uno o più prezzi, di particolar rapidità e di particolare ampiezza.

Quello che vedete qui sopra è il movimento del rendimento del Titolo di Stato USA a 10 anni la settimana scorsa: vi confessiamo che noi non ricordiamo di avere mai visto una settimana come questa.

Abbiamo scritto, in decine di occasioni, che “in questo 2022 è inutile seguire le oscillazioni giorno-per-giorno dei prezzi di mercato”, perché tutti i mercati finanziari sono alla deriva ed anno perso ogni ancoraggio, ogni riferimento, ogni porto sicuro.

La sola chiave nella quale vi potrà essere utile di seguire il giorno-per-giorno è quella che noi vi proponiamo in questo Longform’d: ricavarne la percezione dello stato di tensione, di inquietudine, di nervosismo che predomina tra gli operatori di mercato.

Proseguiamo con una seconda immagine.

In settimana da Goldman Sachs abbiamo ricevuto questo grafico, con le (loro) previsioni per i tassi ufficiali di interesse degli Stati Uniti.

Venerdì pomeriggio, 5 agosto 2022, il grafico era già da rifare: è stato sufficiente un solo dato, il dato USA per l’occupazione.

Anche questo è un segno dei tempi: ed in particolare, dello stato nel quale si trovano oggi i mercati finanziari.

Dove tutto cambia, e tutto si trasforma, ad una velocità incredibile.

Potete ricavare il medesimo messaggio osservando un secondo grafico di Goldman Sachs, anche questo fatto circolare proprio questa settimana.

Vedete qui sopra che le previsioni per la crescita del PIL cambiano molto rapidamente: non soltanto quelle di Goldman Sachs, di JP Morgan oppure di Morgan Stanley: anche le previsioni della stessa Federal Reserve, che vedete rappresentate nel grafico che segue.

Questi rapidi cambiamenti, ovviamente, hanno delle implicazioni, a volte molto forti, per i prezzi sui mercati finanziari.

Un esempio ve lo offriamo nell’immagine che segue.

Lasciamo ai nostri lettori il divertimento, di legare fra di loro le notizie, i cambiamenti delle previsioni, ed i movimenti dei prezzi sui mercati finanziari.

Noi facciamo proprio questo lavoro, per arrivare poi a determinare la composizione, e le modifiche successive, dei nostri portafogli modello: documentando la quotidiana evoluzione delle stime per i rendimenti e per il rischio di ribasso o downside attraverso il The Morning Brief.

Ovvio che si tratta di saper leggere, di sapere scegliere le notizie, e poi anche di sapere analizzare: un esempio recentissimo è quello degli utili trimestrali delle Società quotate. Attraverso i media è stato fato passare un messaggio, a proposito degli utili trimestrali comunicati nelle ultime settimane, che molto semplicemente non corrisponde alla realtà dei fatti.

Per questo, dopo avere registrati i numerosissimi segnali di tensione, noi ci siamo decisi a scrivere di uno “spike” in arrivo: uno “spike” che i lettori che sono anche investitori farebbero bene ad anticipare con adeguati movimenti del portafoglio titoli. Su questo, siamo interessati a confrontarci con i lettori, che ci trovano disponibili ai consueti recapiti.

La situazione di tensione è destinata, a nostro avviso, a trovare sfogo in uno “spike” a causa del fatto che gli squilibri che hanno caratterizzato i mercati finanziari negli ultimi anni, NON si sono ridotti, nel corso del 2022, ma se possibile si sono ulteriormente ampliati.

Un esempio lo trovate nel grafico che segue.

Gli squilibri, invece che ridursi, sono aumentati nel 2022, e necessariamente arriveranno al punto di collasso, punto nel quale uno o più “spikes” interesseranno i prezzi sui mercati finanziari.

Molti investitori oggi pensano che tutti siamo ancora dentro il quadro dei colore azzurro del grafico che chiude il Longform’d.

Non hanno ancora capito: se ci avessero seguito con maggiore attenzione, oggi saprebbero che ci troviamo invece dentro il riquadro di colore viola dell’immagine conclusiva.

Mercati oggiValter Buffo
Longform'd. Arriva lo spike: la geopolitica
 

Abbiamo scelto di scrivere questo Longform’d a favore di tutti quei lettori che potrebbero essere stati ingannati dall’assenza (nell’immediato) di forti reazioni dei mercati finanziari alla vistita del Presidente della camera USA Nancy Pelosi a Taiwan.

Il fatto che dai mercati finanziari, nell’immediato, non siamo arrivate forti reazioni significa NULLA.

In quanto gestori dei nostri portafogli modello, noi durante la settimana abbiamo ricalcolato sia i rendimenti attesi, sia i rischi di ribasso (downside) per tutte le classi di attività e gli asset finanziari che fanno parte oggi, oppure potrebbero fare parte in futuro, in occasione dei prossimi ALERT.

Perché? Perché ci sono eventi che modificano, in modo radicale, le prospettive future di tutti gli investimenti, e questo evento fa parte di quella categoria.

Stimare i rendimenti attesi ed il rischio atteso soltanto DOPO (dopo che gli eventi sono già successi, e dopo che il caos è scoppiato) per un gestore di portafoglio è totalmente inutile. E’ oggi, che bisogna rifare bene i conti.

Se non ve lo hanno spiegato, e se non avete ancora modificato le vostre aspettative e le posizioni nei vostri portafogli titoli, ci dispiace per voi: perché questo è forse l’evento più rilevante del 2022, sicuramente ha maggiore rilievo della guerra in Ucraina, e senza dubbio NON è un evento di breve termine, bensì di medio e di lungo termine.

Determinerà, in futuro, non una revisione, ma una serie di revisioni e modifiche alla strategia di investimento per i nostri portafogli modello, e per tutti i portafogli titoli.

Voi non ci credete? Il private banker ed il wealth manager vi hanno detto “state tranquilli sulla sdraio, non è successo nulla”?

E allora, noi, generosi come sempre, vi facciamo leggere gratuitamente il parere di uno che sicuramente ne sa di più del vostro promotore finanziario.

"E' stato un errore che potrebbe portare a una recessione mondiale". Robert Shiller, economista di Yale, premio Nobel 2013, considerato uno dei padri della "finanza comportamentale", cerca di interpretare la mossa di Nancy Pelosi ma soprattutto le sue conseguenze a catena.

Taiwan è la capitale mondiale dei chip, senza di essi l'economia si ferma?

"Appunto. Dobbiamo convincerci che senza semiconduttori non può funzionare il sistema produttivo di tutto il pianeta. Gli Stati Uniti sono la prima vittima delle difficoltà che già derivano dall'embargo di Pechino alla 'sabbia' per costruire i chip di Taiwan, che poi è un mix di terre rare - dal cobalto al cadmio - che solo i cinesi posseggono. Ma l'America non è la sola a soffrirne: persino i russi si sono lamentati che senza chip non possono far marciare i carri armati, il che ovviamente può farci piacere ma indica la dipendenza da questi componenti elettronici di qualsiasi moderno meccanismo".

Ma è un corto circuito "voluto" o involontario?

"Il presidente Biden aveva sconsigliato pubblicamente la Pelosi poche ore prima che partisse, infatti sembrava che ci avesse rinunciato. Che ci sia sotto chissà quale gioco, non ho elementi per dirlo".

Adesso cosa succederà?

"La storia dei conflitti, dalla prima guerra mondiale alla guerra di Crimea, è piena di episodi del genere, i cosiddetti incidenti geostrategici, apparentemente vicende solo economiche che si trasformano in catastrofi. Non è detto che finisca così, ma di certo si è giocato due volte con il fuoco: si sono provocati i cinesi dimenticando il principio di "una Cina" sottoscritto anche dagli Stati Uniti nel 1972, ma soprattutto ci si è messi contro una potenza che in questo momento non possiamo assolutamente avere contrapposta, anzi in occasione della guerra in Ucraina stavamo facendo di tutto per tenere almeno neutrale".

Dal punto di vista strettamente economico, questa vicenda la sorprende?

"E' l'ennesimo momento di un'incomprensione secolare. L'America accusa la Cina di pratiche scorrette dimenticando che ha un deficit commerciale con un centinaio di Paesi, la Cina accusa altrettanto infondatamente gli Usa di non volere che la Cina si sviluppi e cresca. C'è un pericolo terrificante in questo: Putin ha attaccato l'Ucraina per la sua paranoia di sentirsi minacciato dalla Nato. E' meglio stare alla larga da equivoci e provocazioni in questo momento, non c'è bisogno di scienza comportamentale per capirlo".

Dice benissimo il Premio Nober Robert Shiller: è stato un errore, fare ciò che è stato fatto nel modo in cui è stato fatto.

E dice molto bene Shiller: capire quali giochi ci siano sotto, allo stato delle cose, oggi, è impossibile (per chi non sia direttamente coinvolto negli eventi). Ovviamente tutti sappiamo che è in corso una (asprissima) campagna elettorale.

In ogni caso, è stato un errore: noi di Recce’d ci aspettiamo che questo errore provochi uno “spike”, una improvvisa ed ampia impennata di tensione, sicuramente diplomatica, ma molto probabilmente militare, e sicuramente NON limitata all’area geografica nella quale si trova Taiwan.

Perché noi adesso ci aspettiamo uno “spike” improvviso, che necessariamente coinvolgerà anche i mercati finanziari?

La lettura dell’articolo che segue ve lo spiegherà nel modo migliore.

Oltre a noi di Recce’d, la vede così anche il quotidiano più autorevole del Mondo, che ha pubblicato nell’ultima settimana un articolo, che potete leggere di seguito grazie a noi di Recce’d ed al nostro sito.

Il titolo dell’articolo è esplicito: “La guerra in arrivo per Taiwan”.

A noi pare che, almeno per il momento, se ne potesse (abbondantemente) fare a meno. Anche soltanto di leggere un titolo come questo.

The U.S. is running out of time to prevent a cataclysmic war in the Western Pacific. While the world has been focused on Vladimir Putin’s aggression in Ukraine, Xi Jinping appears to be preparing for an even more consequential onslaught against Taiwan. Mr. Xi’s China is fueled by a dangerous mix of strength and weakness: Faced with profound economic, demographic and strategic problems, it will be tempted to use its burgeoning military power to transform the existing order while it still has the opportunity.

This peaking-power syndrome—the tendency for rising states to become more aggressive as they become more fearful of impending decline—has caused some of the bloodiest wars in history. Unless the U.S. and its allies act quickly, it could trigger a conflict that would make the war in Ukraine look minor by comparison.

From ancient times to the present, once-rising powers have taken up arms when their fortunes faded, their enemies multiplied, and they felt they had to lunge for glory or lose their chance forever.

No one can say we didn’t see it coming. Just this week, House Speaker Nancy Pelosi paid a high-profile visit to Taiwan, and Beijing responded by encircling the island with several days of live-fire military exercises. For the past decade, China’s factories have churned out ammunition and put warships to sea faster than any country since World War II. The People’s Liberation Army (PLA) regularly practices missile strikes on mock-ups of Taiwanese ports and U.S. aircraft carriers, and PLA vessels and aircraft menace Taiwan’s territorial waters and airspace several times a week. The regime has issued bloodcurdling threats toward the island and countries that might come to its aid. “Those who play with fire will perish by it,” Mr. Xi told President Joe Biden last week. Senior U.S. officials warn that China might attack Taiwan in the next half-decade, possibly even in the next 18 months.

Beijing’s belligerence might look like the mark of an ascendant superpower. But the reality is more complex. China isn’t so much a rising state as a peaking power, one that has acquired fearsome coercive capabilities—and soaring power ambitions—but now faces worsening challenges at home and abroad.

Such a combination of aspiration and anxiety can be explosive. From ancient times to the present, once-rising powers have taken up arms when their fortunes faded, their enemies multiplied, and they felt they had to lunge for glory or lose their chance forever. Fast-growing countries have responded to economic slumps with reckless expansion. Revisionist states that find themselves cornered by rivals often use force to break the ring. The ghastliest wars of the last century were started not by rising, optimistic powers but by countries—such as Germany in 1914 or Japan in 1941—that had crested and begun to decline. Now China is following this arc—an exhilarating rise followed by the prospect of a hard fall.

Thanks to decades of rapid growth, China boasts the world’s largest economy (measured by purchasing power parity), navy by number of ships and conventional missile force. Chinese investments span the globe, and Beijing is pushing for primacy in crucial technologies. Chinese leaders are dreaming some very big dreams: They want to absorb Taiwan, make the Western Pacific a Chinese lake and carve out a vast economic empire across the global south—all part of the “national rejuvenation” that will return China to its former place as the most powerful country on Earth. In the West, pundits breathlessly warn that Beijing will soon be number one.

Look closer, however, and China’s future doesn’t seem so bright. Once-torrid growth had already slowed dramatically before Covid-19 compelled the government to lock down major cities indefinitely. Water, farmland and energy resources are becoming scarce. Thanks to the legacy of its one-child policy, China is approaching demographic catastrophe: It will lose 70 million working-age individuals over the next decade while gaining 120 million senior citizens. And whereas the outside world once aided China’s rise, now advanced democracies are kicking Chinese firms out of their financial markets, strangling China’s tech giant Huawei, boosting military spending and creating multilateral coalitions to check Beijing’s expansion. Mr. Xi may tout the rise of the East and the decline of the West, but behind the scenes, Chinese government reports paint pessimistic pictures of slowing growth at home and surging anti-Chinese sentiment abroad.

In the long term, China’s woes will make it less competitive. It probably can’t outpace America in a superpower marathon, let alone America plus its allies. But in the near-term, we should expect a more dangerous China—one that gambles big to reshape the balance of power before its window closes.

Taiwan is the most likely target of this anxious expansion. Reclaiming Taiwan would eliminate a government whose very existence disproves the Chinese Communist Party’s claims that Chinese culture is incompatible with democracy. It would give Beijing a commanding position in the Western Pacific and terrify U.S. allies like the Philippines and Japan. Not least, it would cement Xi Jinping’s legacy as a leader on par with Mao Zedong.

For decades, a confident, rising China was content not to force the issue, seeking to gradually lure Taiwan back through peaceful means. Today, though, the prospects for peaceful unification are fading fast. Most Taiwanese don’t want to be ruled by a genocidal dictatorship. Popular support for unification has nearly disappeared while support for incremental moves toward independence has doubled since 2018.

But between now and the end of the decade, China has a tantalizing opportunity to secure unification by force. Mr. Xi’s reforms of the PLA—meant, among other things, to make it capable of taking Taiwan—are nearly complete. China is rapidly deploying missiles, aircraft, warships and rocket launchers that can pummel Taiwan; it is assiduously rehearsing large-scale amphibious assaults.

Meanwhile, U.S. military power is about to dip. The mid-2020s will witness the mass retirement of aging U.S. cruisers, guided-missile submarines and long-range bombers, leaving the U.S. military with hundreds fewer missile launchers—the key metric of modern naval firepower—floating and flying around East Asia. While Washington, Tokyo and Taipei are all undertaking much-needed defense programs focused on denying Chinese hegemony in Asia, those efforts won’t bear fruit until the early 2030s. Mr. Xi has repeatedly said that the task of “liberating” Taiwan cannot be passed down from generation to generation. In the mid- and late 2020s, he’ll have his best chance to accomplish that mission.

If war comes, it is likely to feature the massive application of force. Beijing could theoretically try to coerce Taiwan into unification with a more limited operation, such as an air-sea blockade or the seizure of Taiwan’s small offshore islands. Yet none of these options can guarantee Taiwanese capitulation, and all of them would give Taipei, Washington and other democracies time to mount a punishing response. To achieve its goals, China has to go big and brutal from the start.

Its war plan could well involve a surprise missile and air attack against Taiwan and U.S. military bases in the Pacific, strikes on the satellite communications that underpin the American way of war and a wave of sabotage and assassinations within Taiwan—all as prelude to a massive airborne and amphibious invasion.

Both U.S. and Taiwanese forces could be crippled as the PLA rushes toward its objectives. Even if America avoids rapid defeat, the nightmare scenario currently envisaged in Ukraine—direct clashes between the U.S. and a nuclear-armed great power—would be the reality at the outset. A Sino-American war could escalate rapidly because it will involve technologies that work best when used first, including cyberattacks, hypersonic missiles and electronic warfare. The side that is losing might decide to use low-yield nuclear weapons to turn the tide or force its opponent into submission.

The economic fallout would also be horrendous. Vital waterways would become shooting galleries; the world might find itself cut off from the more than 90% of cutting-edge semiconductors that are manufactured in Taiwan. According to the RAND Corporation, one year of fighting would reduce America’s gross domestic product by 5% to 10% and China’s by 25% to 35%. A global depression would be all but guaranteed.

American officials aren’t blind to the problem, but Washington—thanks to a mixture of inertia, distraction and simple denial—isn’t racing to address it. President Biden has pledged, albeit ambiguously, to defend Taiwan from Chinese attack. Speaker Pelosi has joined a growing list of lawmakers to visit Taiwan. The Pentagon calls China its “pacing challenge.” Yet such symbolic gestures will amount to cheap and provocative talk if not backed by a strong and resilient defense—something the U.S. and Taiwan currently lack.

American forces in the Pacific are still concentrated at large bases, principally on Guam and Okinawa, that are highly vulnerable to missile attacks. The U.S. defense budget has loads of money for future capabilities that might materialize in the 2030s but won’t help win a war over Taiwan in this decade. Washington has, rightly, committed tens of billions of dollars in aid to Ukraine yet struggles to find a fraction of that to fund the Pacific Deterrence Initiative, meant to make U.S. forces in the region more resilient and powerful. The fact that China faces an ugly long-term trajectory won’t be much consolation if Beijing nonetheless thrashes Washington and Taipei in the coming fight for dominance of the Western Pacific.

But the situation isn’t hopeless. Amphibious assaults are devilishly difficult, and a full-on invasion of Taiwan would be one of the largest amphibious assaults in history. It would require the PLA to surge hundreds of thousands of troops across the turbulent Taiwan Strait and to seize an island whose geography—mountains, dense jungles, crowded urban environments—is a defender’s dream. A smart, committed defender could turn this operation into a bloody nightmare for invading forces. And doing so doesn’t require defying the laws of physics; it just requires moving—now—to make an invasion look all-too-daunting for even a risk-prone peaking power.

First, the Pentagon can turn the Taiwan Strait into a deathtrap for attacking forces by stocking up on tools that are ready or nearly ready today. This means positioning hordes of missile launchers, armed drones, electronic jammers and sensors at sea and on allied territory near the strait. Instead of waiting for a Chinese assault to start and then surging missile-magnet aircraft carriers into the region, the Pentagon could use what is, in essence, a high-tech minefield to decimate China’s invasion forces and cut their communications links. These diffuse networks of munitions and jammers would be difficult for China to eliminate without starting a regionwide war. They could be installed on virtually anything that floats or flies, including cargo ships, barges and aircraft.

The U.S. also needs to ensure that its military doesn’t have a glass jaw. To prevent China from wrecking forward-stationed American forces at the start of a conflict, the U.S. must scatter those forces across dozens of small operating sites in East Asia. The few big bases that remain must be outfitted with hardened shelters, robust ballistic missile defenses and fake targets to absorb Chinese missiles. Hanging tough also requires dramatically ramping up production of key munitions, so that America has adequate stockpiles and active production lines when the shooting starts. In short, Washington must deprive Beijing of any hope of landing a knockout blow—and thereby confront it with the prospect of a long, grueling war that could threaten the CCP’s hold on power at home.

Another priority is for Washington to help Taiwan help itself. Taipei has smart plans to stock up on mobile missile launchers, mines and radars; harden its communications infrastructure; enlarge its army and ground-force reserves; and otherwise prepare to inflict sky-high costs on an aggressor. But Taipei isn’t implementing these plans fast enough. If Taiwan doesn’t pick up the pace, there is nothing the U.S. can do to save it. If Taiwan redoubles its efforts, however, then America should provide money, hardware and expertise to make the island a tougher target.

The U.S. can help by donating ammunition and sensors, subsidizing Taiwanese procurement of missile launchers and mine layers, matching Taiwanese investments in vital military infrastructure and expanding joint training on crucial defense missions. American special operations forces can help Taiwan prepare for a lethal insurgency against Chinese occupiers, the threat of which may help deter an invasion in the first place. Just as important, Washington can undertake more complex exercises with Taiwan’s military—and quietly station larger contingents of trainers and special operations forces on the island—to ensure that the two countries can act as a real alliance if a conflict ignites.

The U.S. also needs to exploit the enemy’s weaknesses. Because the PLA hasn’t fought a major war since invading Vietnam in 1979, it hasn’t tested its modern command-and-control processes under fire. By developing the ability—through cyberattacks and related means—to inject confusion into military communications networks, the Pentagon can make Chinese officials wonder how glitchy their forces will be in combat. And by rehearsing a distant blockade of Chinese energy imports, America can threaten to turn any protracted conflict into an economic disaster for Beijing.

Finally, the U.S. must make China realize that a Taiwan war could go big as well as long. The more friends America can bring into the fight, the less appetizing that fight will look to Beijing.

The PLA may talk big about crushing Japan if Tokyo helps Washington in a crisis, but it can’t relish the prospect of fighting a global superpower and its mightiest regional ally. The Indian and Australian navies could help Washington choke off Beijing’s oil imports as they transit the Malacca Strait. Key European powers—especially the United Kingdom and France—can contribute submarines or surface combatants; more important, they can impose painful technological and economic sanctions. Sanctioning China obviously would be more difficult than sanctioning Russia—which is why America and its allies need to plan these punishments now, before a crisis starts.

If Washington can credibly promise to turn a fight over Taiwan into a showdown between China and the world’s most advanced democracies, that is a strategic price even Xi Jinping might not want to pay. Indeed, the best way to avoid a looming war in Asia is to make clear that Beijing cannot win at anything like an acceptable cost.

The crisis over Speaker Pelosi’s visit is just the beginning. The U.S. is entering the most crucial phase of its rivalry with China, when the risk of war is highest and decisions made, or not made, will reverberate for decades. America can win a protracted competition against a formidable but faltering China, but only if it braces now for the very real possibility of a dramatic attack on Taiwan.

Mr. Brands is the Henry Kissinger Distinguished Professor at the Johns Hopkins School of Advanced International Studies and a senior fellow at the American Enterprise Institute. Mr. Beckley is associate professor of political science at Tufts University and a nonresident senior fellow at the American Enterprise Institute. This essay is adapted from their new book, “Danger Zone: The Coming Conflict with China,” which will be published by W.W. Norton on Aug. 16.

Mercati oggiValter Buffo
Longform’d. Arriva lo spike: la politica dei Governi e la politica delle Banche Centrali
 

Il disagio dei Governi Occidentali, e della politica in generale, lo leggete ogni mattina sui quotidiani: lo testimoniamo le dimissioni di Boris Johnson a Londra, il Governo senza maggioranza sotto Macron in Francia, le dimissioni di Mario Draghi in Italia, e i sondaggi di opinione negli Stati Uniti (che si possono qualificare solo come “disastrosi” per Joe Biden).

Ognuno dei nostri lettori avrà una sua spiegazione, per questo momento di difficltà, che associa tutte le grandi democrazie dell’Occidente.

Noi, probabilmente influenzati dalla professione che svolgiamo, attribuiamo una parte importante, ed anzi maggioritaria, delle cause di questo generale indebolimento dei Governi in carica allo stato delle economie, ed in modo particolare alle disastrose scelte di politica economica fatte negli USA ed in Europa a seguito della pandemia.

Politiche sbagliate, che come Recce’d aveva anticipato nel 2020 hanno provocato reazioni che gli stessi Governi non erano stati capaci di prevedere allora (oppure, forse, che avevano fatto finta di ignorare).

Come nel 2020 Recce’d vi aveva anticipato la situazione che oggi si legge sulle prime pagine dei quotidiani, oggi Recce’d è in grado di anticiparvi che siamo appena all’inizio di una fase di profonda disgregazione sociale: non occorre essere un genio, per capire dove si stanno dirigendo gli eventi.

L’immagine più sopra vi informa del fatto che nel Regno Unito è presente, ed in forte crescita, un movimento che dice di “smettere tutti quanti di pagare le bollette allo stesso tempo”, eventualità che molto rapidamente porterebbe al collasso dell’economia.

E siamo molto stupiti che, nel clima di campagna elettorale, al giorno 5 agosto 2022 nessuno in Italia abbia ancora fatto propria questa proposta di ribellione sociale.

Noi cogliamo questo spunto per ricordare al letto (ovviamente in chiave di gestione del proprio portafoglio titoli) che è un gravissimo errore guardare all’inflazione come ad un fenomeno che si sviluppa ed interessa soprattutto i mercati finanziari.

Oggi, ed a qui in avanti, dovete concentrare la vostra attenzione (in quanto investitori) su ciò che accade FUORI dai mercati finanziari.

Dopo 13 anni di assurda gestione della politica economica, oggi i mercati finanziari hanno perso ogni capacità di guidare le economie, ed invece devono adattarsi e semplicemente riflettere ciò che accade nella vita reale.

Come è normale che sia, e come sempre è stato, prima che qualche “mente brillante” inventasse il QE, quel QE che adesso tocca a noi di pagare.

Occupatevi quindi, ma in modo attento, analitico e critico, dei fatti che accadono nell’economia reale. Un esempio tra mille viene offerto qui sotto nell’immagine.

Forse è una deformazione professionale: ma noi di Recce’d siamo certi che questo tipo di difficoltà dell’economia reale, provocate dagli eccessi derivanti da scelte sbagliatissime nella politica economica, ha giocato e gioca tuttora un ruolo decisivo, nella instabilità sempre più evidente dei Governi di Occidente.

Anche in questo ambito, ovvero l’ambito della politica dei Governi e dei Parlamenti, è giustificato attendersi a breve uno “spike”: un movimento ampio ed improvviso, che provoca conseguenze oggi non calcolabili, proprio perché uno “spike” è per definizione non prevedibile.

Tra le cose prevedibili, invece, c’è la partenza della “caccia al colpevole”, caccia che è già iniziata.

In tutto il Mondo, le Autorità di Governo hanno già iniziato a chiamare in causa le Banche Centrali, attribuendo proprio alle Banche centrali la responsabilità di questo autentico disastro economico.

Ve lo ricordiamo con l’immagine che segue, che riporta le parole del prossimo (ci dicono gli esperti locali) Capo del Governo a Londra.

Lo “spike” del quale parla questo Longform’d dunque riguarderà la politica nel suo significato più ampio: la politica fatta dai Governi, ma pure la politica fatta dai banchieri centrali, i quali (come sempre noi vi ricordiamo) sono niente altro che uomini politici (soltanto: non eletti, da nessuno).

La pressione alla quale le Banche centrali oggi sono soggette provoca reazioni poco controllate, ma di grande evidenza, che sfociano poi in situazioni non desiderate, che stanno in bilico tra il ridicolo ed il tragico.

Ne è stato un esempio, clamoroso, il dibattito sul “pivot” delle ultime settimane, dibattito che noi di Recce’d abbiamo seguito ogni mattina attraverso il bollettino quotidiano The Morning Brief.

Il titolo ed anche l’immagine qui sopra, che abbiamo tratto dal Wall Street Journal, vi documentano che la cosa ha fatto ridere non soltanto noi di Recce’d. Non capita spesso di leggere articoli sulla Federal Reserve accompagnati dal simpaticissimo faccione di George Costanza.

Tutti poi sapete, che nei giorni successivi alla pubblicazione di quell’articolo del WSJ si è registrata una vera e propria corsa delle donne e degli uomini della Fed a spiegare che “quello che ha appena detto Jerome Powell non è vero per niente”. Lo potete leggere qui sotto.

Hawkish comments from several Fed presidents are countering a recent narrative taking hold of financial markets, in which policymakers would ease up on a recent tightening cycle given expectations of an economic slowdown. Stocks dipped on the remarks on Tuesday, while investors sent the 10-year Treasury yield up 15 basis points to the 2.75% level. The new spate of aggressiveness also saw the safe-haven dollar renew its surge, though there was still plenty of optimism that the U.S. could achieve a soft landing and avoid a formal recession.

St. Louis' James Bullard: "I think that inflation has come in hotter than what I would have expected during the second quarter. Now that that has happened, I think we're going to have to go a little bit higher than what I said before."

San Francisco's Mary Daly: "[The Fed is] nowhere near almost done. We have made a good start and I feel really pleased with where we've gotten to at this point, [but] people are still struggling with the higher prices. My modal outlook, or the outlook I think is most likely, is really that we raise interest rates and then we hold them there for a while at whatever level we think is appropriate."

Chicago's Charles Evans: "If we don't see improvement before too long, we might have to rethink the path a little bit higher. We want to see if the real side effects are going to start coming back in line... or if we have a lot more ahead of us."

Cleveland's Loretta Mester: "We have more work to do because we have not seen that turn in inflation. It's got to be a sustained, several months of evidence that inflation has first peaked - we haven't even seen that yet - and that it's moving down."

Non è una forzatura affermare che questa è una scena ridicola: delle più ridicole tra quelle prodotte dalla Federal Reserve nella sua storia.

Non è obbligatorio, rendersi ridicoli. Altre Banche Centrali negli stessi giorni hanno scelto un modo diverso di comunicare ed un modo diverso di operare, come potete leggere nell’articolo del Financial Times che riportiamo qui di seguito.

L’articolo del Financial Times commenta le decisioni del 4 agosto scorso, ed inizia con queste parole:

L'annuncio della Banca d'Inghilterra di giovedì passerà alla storia non solo per il più grande aumento dei tassi d'interesse degli ultimi 27 anni ma, cosa forse ancora più importante, per il tipo di franchezza analitica e onestà intellettuale che sembra sfuggire costantemente alle altre principali banche centrali.

Parole davvero molto appropriate, ed utilissime per tutti noi investitori. Utilissime nella pratica, nella gestione degli investimenti e del portafoglio. Leggete con massima attenzione.

The Bank of England announcements on Thursday will go down in history, not only because of the largest interest-rate increase in 27 years but, perhaps more importantly, for the sort of analytical directness and intellectual honesty that seems to consistently elude other top central banks. Also, the central bank’s unpleasant outlook for the UK economy has implications for the global economy, but not all because of some of the unique circumstances there.

In an 8-1 decision, the Bank of England raised interest rates by 50 basis points and warned that inflation would peak above 13% in October and was unlikely to return to the 2% target before 2025. It cautioned that, given the current policy configuration, the country was staring at the prospects of a recession that would start in the fourth quarter and last through next year, resulting in a peak-to-trough drop in gross domestic product of some 2% and painful declines in real income for many households. Its assessment of the balance of risks to this baseline was not reassuring.

Unlike what has been happening repeatedly in the US for the Federal Reserve, no one I know rushed to dismiss the central bank’s messages and forecasts as “wishful thinking,” “laughable,” “inexplicable” or “analytically indefensible” — actual phrases that have been used by serious economists and former Fed officials in reaction to commentary from the Fed. Instead, the Bank of England’s announcements are being seen so far as refreshingly direct and honest. They are also acting as a catalyst for serious discussions and analysis and, as important, deeper consideration of what is being proposed by the two candidates for prime minister.

The Bank of England is reminding the world what a politically independent central bank can and should do: act as a “trusted adviser,” willing to share analytically honest views that other more politically sensitive institutions are either unable or unwilling to do.

Of course, this is not a risk-free approach. Such honesty — rather than catalyzing appropriate responses from policy-making agencies that lead to better economic and social outcomes — can provoke household and corporate behaviors that accelerate the bad outcomes. Yet the risks involved are worth taking, especially when the alternative is a central bank that loses institutional credibility, sees the effectiveness of its forward policy guidance erode and becomes even more vulnerable to political interference.

It should also be noted that the UK’s situation differs in some important way from those of other countries. The country’s economic challenges are complicated not only by the energy price catch-up but also by the political transition and the changing nature of the country’s relations with its trading partners.

This is not to say that the implications for other countries do not go beyond the importance of analytical directness and intellectual honesty. They do. Indeed, I can think of four others:

  • Illustrating the elusiveness of “first best” policy responses in a world in which central banks fell behind in responding to inflation.

  • Acting as a reminder that, in such a world, the prospects of high inflation and recession can coexist.

  • Highlighting the need for central banks to act relatively aggressively despite the likelihood of inflation destroying demand.

  • Stressing the need for governments and multilateral institutions to assist in efforts to contain inflation, promote productivity and growth, and protect the most vulnerable segments of the population.

I suspect that, in the next few days, the Bank of England will again discover that it is not easy to be the messenger of unpleasant news, no matter how honest and well-intended the approach is. Yet the example it sets for other central banks is an inspiring one, as is the possibility of acting as a catalyst for a more holistic response to the UK’s economic and social challenges.

Detto della Banca di Inghilterra, torniamo adesso alla Federal Reserve, ed alla forte pressione che provoca poi errori tragicomici come quello recentissimo del “pivot”: tra i tantissimi che, in sede pubblica, oggi (solo oggi …) attaccano la Federal Reserve, ci sono anche personaggi che hanno fatto parte del Board della Federal Reserve fino a pochissimi mesi fa: in settimana Bill Dudley, ex-Capo (potentissimo) della Federal Reserve di New York, ha pubblicato su Bloomberg un attacco fortissimo, che potete leggere qui di seguito.

Data la rilevanza (politica, non economica oppure finanziaria) di queste parole, abbiamo deciso di tradurre l’articolo in italiano.

Ultimamente gli investitori sono diventati stranamente ottimisti sulla possibilità che la Federal Reserve non debba inasprire ulteriormente la politica monetaria, facendo salire le azioni e le obbligazioni nella speranza che la Federal Reserve riesca presto a tenere sotto controllo l'inflazione.

 Questo wishful thinking è infondato e controproducente.

L'esuberanza del mercato sembra derivare in parte dall'ultima conferenza stampa di Jerome Powell, in cui il presidente della Fed ha osservato che la crescita è rallentata, non si è impegnato a un altro aumento dei tassi di 75 punti base a settembre e ha suggerito che l'inasprimento monetario potrebbe frenare l'eccesso di domanda di lavoratori senza danneggiare troppo gli attuali occupati. Ciò ha alimentato la speculazione di un "pivot" verso aumenti più contenuti dei tassi di interesse, con alcuni che sostengono che la Fed abbia già fatto abbastanza.

Non c'è da essere fiduciosi su un simile risultato. Ad esempio, Powell ha fatto ripetutamente riferimento alle proiezioni dei funzionari della Fed di giugno, che indicano che il tasso dei federal funds raggiungerà il 3,8% nel 2023 - più di 50 punti base in più rispetto a quanto attualmente previsto dai mercati finanziari e difficilmente compatibile con l'ipotesi del "pivot".

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, l'inasprimento della politica monetaria è uno strumento troppo blando per colpire solo la domanda dei lavoratori non ancora occupati. Essa influisce su tutti i settori dell'economia sensibili ai tassi d'interesse e quindi raggiunge inevitabilmente anche i lavoratori occupati. Quanto maggiore è l'eccesso di domanda di lavoro, tanto maggiore sarà l'inasprimento che la Fed dovrà attuare e tanto maggiore sarà il numero di persone che rimarranno senza lavoro. L'ultima lettura dell'indice del costo dell'occupazione sottolinea quanto sia rigido il mercato del lavoro: I salari dei lavoratori del settore privato sono aumentati del 5,7% rispetto a un anno prima. Inoltre, i funzionari della Fed ritengono che il tasso di disoccupazione compatibile con la stabilità dei prezzi sia significativamente più alto di quello registrato durante l'ultima espansione economica. Ciò significa che sarà necessario sacrificare più posti di lavoro per tenere sotto controllo l'inflazione.

Alcuni sostengono che la Fed non ha bisogno di indurre una tale perdita di posti di lavoro: l'inflazione si ridurrà da sola, insieme alle interruzioni dell'offerta create dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Ma la banca centrale deve fare i conti con il mondo così com'è: Se la domanda supera l'offerta, la Fed deve agire per ridurre la prima anche se la seconda è limitata. Al di là di questo, le interruzioni dell'offerta sono ben lungi dal rappresentare l'intera storia. Le pressioni inflazionistiche si sono ampliate, come dimostra l'aumento del 6% su base annua dell'indice mediano dei prezzi al consumo della Fed di Cleveland, rispetto al 3,8% di sei mesi prima.

Tutto sommato, le prospettive non sono cambiate. L'inflazione è troppo alta, il mercato del lavoro è troppo rigido e la Fed deve reagire - molto probabilmente spingendo l'economia verso una vera e propria recessione, invece dei due trimestri di lieve contrazione del PIL che si sono verificati finora. Il wishful thinking dei mercati non fa che rendere più difficile il lavoro, allentando le condizioni finanziarie e richiedendo una maggiore stretta monetaria per compensare.

L'errore più grande che la Fed può commettere è quello di non riuscire a riportare l'inflazione al 2%. Fortunatamente Powell lo riconosce, anche se sottovaluta la difficoltà del compito, dato il contesto economico e l'inizio molto tardivo della Fed.

Mettiamo queste parole a confronto con le parole scritte, in pratica lo stesso giorno, dal notissimo ed autorevole Mohamed El Erian: El Erian dice in sostanza le medesime cose, ma le dice già da qualche mese. Noi di Recce’d, invece, diciamo queste cose da un paio d’anni.

E’ utile mettere queste parole di El Erian, che furono scritte lo 1 agosto a commento dell’ultima settimana di luglio 2022, con ciò che tutti poi avete visto, e letto, nella prima settimana del mese di agosto 2022.

July was an illustration of the adage that “the market is not the economy.” US stocks had their best month in two years while the economy received discouraging news about both growth and inflation. But rather than illustrating another adage — “bad news is good news” — the contrast is a reminder that economic fundamentals are one of three main drivers of asset prices, and their influence varies over time.

With a return of 12% in July alone, the Nasdaq Composite Index recovered more than a third of the loss incurred in the brutal first half of 2022. The other, less volatile indexes also had a strong month, reducing the year-to-date losses to 10% and 13% for the Dow Jones Industrial Average and the S&P 500 Index respectively.

July was full of worrisome news about sky-high inflation (9.1% as measured by the consumer price index for June), negative GDP growth (-0.9% for the second quarter), a drop in real incomes and diminished household savings. Company after company warned that the damaging impact of inflation on their costs was now increasingly accompanied by worries about revenue as rising prices destroyed demand for some goods and even services, though less so for now.

Politicians, as opposed to the majority of economists who take a more holistic definition of the concept, debated loudly whether the US is in a recession. With Google “recession” searches already surging, this added to the likelihood of a more cautionary spending approach on the part of both households and businesses — this as the Federal Reserve’s preferred inflation metric, the personal consumption expenditures price index, rose to a level not seen since January 1982.

It’s no wonder the Fed, scrambling to control the policy narrative and seeking to limit more harm to its already-damaged credibility, raised interest rates 75 basis points into a weakening economy — when markets increasingly priced in the likelihood of a rate U-turn in 2023 because of a Fed-induced recession.

The concerning news was not limited to the US economy. It was also global.

In its periodic update of its world economic outlook, the International Monetary Fund described the global economy’s prospects as “gloomy and more uncertain.” The IMF cut its growth projections for 2022 by 0.4 percentage points to 3.2%, a significant amount for a mid-year revision, and by 0.7 percentage points to 2.9% for 2023. It also revised up its inflation forecasts and warned of possible financial and debt problems.

Having worked at the fund for 15 years earlier in my career, I can assure you that officials there do not use words such as “gloomy” lightly. And the words are appropriate given that this weekend’s contractionary data for China’s manufacturing sector confirmed that all three systemically important regions in the world — China, the euro zone and the US — are slowing significantly at the same time.

One interpretation of the striking contrast between the economy and markets in July is that the bad economic news will lead the Fed to pause its monetary tightening early and then lower interest rates quickly and perhaps even suspend its plans for balance sheet contraction — thereby returning to a policy pattern that, for years, loosened financial conditions and drove asset prices higher. Indeed, stocks had their biggest ever post-Federal Open Market Committee rally as traders responded to Fed Chair Jerome Powell’s unscripted remark that interest rates are at “neutral” — a comment that, inconsistent with Powell’s other remarks at that press conference, contributed to a general chuckle when, later in the press conference, he said that the Fed did not want to contribute to market volatility.

A majority of economists questioned Powell’s unscripted remark. From an economic, institutional and market perspective, it would have been much better for Powell to stick to the script given to him rather than venture into a statement that Larry Summers, the former Treasury secretary, described on Bloomberg Television as “analytically indefensible” and “inexplicable.”  Yet having gone unscripted, Powell’s analytical slip served as a spark for markets that have been conditioned by years of huge and predictable Fed liquidity injections.

It should come as no surprise that markets are so sensitive to any hint of a return to the uber-stimulative, liquidity-abundant policy regime. Yet high and potentially sticky core inflation greatly limits the Fed’s ability to pivot back to such a regime any time soon.

There is a better way to think about July’s contrast between the market and the economy, one based on the view that asset prices are sensitive to three general influences: fundamentals, including the economy’s impact on corporate earnings; technicals, including the amount of overall liquidity in the system, cash in investment portfolios and general level of risk-taking; and relative valuations, be they historic or intra-asset class. The latter two influences drove the July rally in the face of deteriorating fundamentals.

Given the amount of liquidity that has been injected in recent years, a lot of it is still sloshing around. The level of cash holdings by investors has been high, and the willingness to take risks is still considerable once a green light flashes on.

All this comes when equity valuations have become more attractive, with some particularly prominent individual stocks, albeit a relatively small set, trading at strikingly cheap levels. Stocks have also benefited from the widening market belief that, with the economy slowing so rapidly, bond yields had fallen in the last month and a half to levels that are notably less attractive, especially with such high inflation.

This is not to say that fundamentals will have no influence going forward. A lot will depend on the answer to two questions: How sticky will inflation be on the way down, and how deep will the possible recession be, neither of which can be answered yet with a great degree of confidence.

Ci sarebbe da scrivere moltissimo, a proposito della frase con cui El Erian sceglie di chiudere il suo pezzo:

Molto dipenderà dalla risposta a due domande: Quanto sarà appiccicosa l'inflazione durante la discesa e quanto sarà profonda l'eventuale recessione, a nessuna delle quali si può ancora rispondere con grande sicurezza.

Ai lettori più attenti, ricorderà una frase che noi di Recce’d ripetiamo spesso agli investitori: non perdete il vostro tempo a guardare quello che il mercato finanziario ha fatto la settimana scorsa, e guardate invece alla realtà: perché dipende dalla realtà, la direzione dei mercati finanziari nel futuro.

La realtà, nel caso delle parole di El Erian, sono l’inflazione FUTURA e la recessione FUTURA.

Ne riparleremo, in altra sede, sicuramente da lunedì mattina nel The Morning Brief, e poi anche qui nel nostro sito.

Ma torniamo sul tema del presente Longform’d, che è lo “spike” che Recce’d vi anticipa, e che vedremo accadere nell’ambito della vita politica (Governi e Banche Centrali) forse già nel mese di agosto.

Mettete in conto, guardando al vostro portafoglio titoli, uno o più improvvisi, rapidissimi ed ampi cambiamenti. Se poi non arrivasse in agosto, sarà in ogni caso stati utile, razionale e protettivo averne tenuto conto. Arriverà eventualmente poi, in settembre.

Potrebbe investire i Governi e la vita sociale in Occidente. Potrebbe forse investire direttamente le Banche Centrali: siete tutti persuasi che “le cose andranno avanti in questo modo per sempre”, ma non è vero. In passato, ci furono cambiamenti, dimissioni, sostituzioni, e radicali cambiamenti di rotta.

Oggi (come abbiamo scritto solo pochi giorni fa qui nel Blog) che ufficialmente si è rinunciato alla “forward guidance”, tutti gli investitori debbono attendersi di tutto, ed in ogni giorno del calendario.

A questo proposito, noi oggi chiudiamo il Longform’d con un articolo che noi abbiamo giudicato eccezionale: il Wall Street Journal è probabilmente il più importante quotidiano finanziario del Pianeta, ed è quindi il metro del “pensiero della Finanza” contro il quale misurarsi. Il WSJ esprime in un certo senso la “ortodossia” di pensiero per chi opera nei settori della Finanza e del risparmio. Chi viene definito “contrarian” si pone su posizioni diverse proprio da quelle che si leggono sul WSJ

Noi di Recce’d non ricordiamo di avere mai letto, sul WSJ un attacco diretto alla Federal Reserve, come quello pubblicato giovedì 4 agosto: particolarmente, con toni altrettanto duri.

E vi facciamo notare che l’articolo è firmato dallo “Editorial Board”: il vertice editoriale del WSJ: E quindi, anche l’editore stesso.

Come detto, l’articolo è durissimo: ripercorre gli ultimi dieci giorni, con particolare riferimento al tema del “pivot”, a come le parole di Jerome Powell il 27 luglio hanno infiammato questo dibattito, e di come poi la settimana scorsa donne e uomini della Federal Reserve sono accorsi a spegnere l’incendio.

Dice il WSJ: hanno sbagliato tutti, dal primo all’ultimo. E adesso, dice il WSJ, è arrivato il momento di parlare molto meno, e di lasciare parlare i fatti.

Nessun grazie per la confusione. Se la Fed ha intenzione di alzare i tassi in modo aggressivo, il FOMC dovrebbe farlo e basta. I funzionari che hanno un ruolo di voto a rotazione nel comitato, come la signora Mester e il signor Bullard, avrebbero potuto esprimere il loro orientamento da falco esprimendo un voto dissenziente a favore di un aumento di un punto. I funzionari che attualmente non sono membri votanti, come Daly ed Evans, non hanno l'autorità politica e la responsabilità di definire le politiche ora, ma stanno cercando di farlo comunque con commenti pubblici.

La forward guidance avrebbe dovuto offrire maggiore chiarezza sulle intenzioni della banca centrale. La realtà è che una Fed chiacchierona parla contro se stessa e manda in tilt i segnali del mercato in un momento difficile per l'economia. È ora di lasciare che siano di nuovo le azioni della Fed a parlare.

Il che, per tutti noi investitori, sarebbe come una benedizione dal Cielo.

Ma siamo poco, pochissimo convinti che le donne e gli uomini della Fed, e della BCE, adesso smetteranno di sbagliare, e sbagliare, e sbagliare.

Only a week ago Jerome Powell suggested that the Federal Reserve would stop talking so much about monetary policy. Well, that didn’t last long. Witness the small army of Fed officials who have fanned out to warn markets that the Chairman didn’t mean what he supposedly wasn’t saying last week.

The issue is forward guidance, the Fed’s practice of signaling to markets—via policy statements, press conferences, economic projections, speeches and media leaks—what the Federal Open Market Committee is likely to do in the future. The central bank after 2008 went wild on guidance on the theory that jawboning can influence long-term interest rates and reduce market volatility.

In practice, forward guidance has tied the Fed into loose policies when inflation was accelerating, for fear that tightening too quickly would spook unprepared investors. So it was a relief when, in his July 27 press conference, Mr. Powell said the Fed would step away from forward guidance regarding the future path of interest rates. “We think it’s time to just go to a meeting-by-meeting basis,” Mr. Powell said, “and not provide the kind of clear guidance that we had provided.”

Neither Mr. Powell nor his colleagues have stuck to that. Already before the meeting, someone had leaked to this newspaper that a one-percentage-point rate increase was off the table despite higher-than-expected inflation. In his own no-more-forward-guidance presser, Mr. Powell offered a form of guidance: Rates, he said, may be nearing the neutral level where no further increases would be necessary to tame inflation, and soon “it likely will become appropriate to slow the pace of increases.”

Markets took the dovish hint. At the start of July, investors believed the fed funds rate would top out next February with futures pricing an average daily effective rate of 3.37% for that month. The day after Mr. Powell’s no-guidance press conference, he had non-guided that bet down to 3.26% with an assumption rates would fall soon after. 

Not so fast, Mr. Powell’s Fed colleagues now say. San Francisco Fed President Mary Daly said this week the central bank has “a long way to go” to rein in inflation. “We have more work to do because we have not seen that turn in inflation,” said Cleveland Fed chief Loretta Mester. Charles Evans of the Chicago Fed said he might support a 0.75-point rate increase in September. James Bullard of the St. Louis Fed hinted rates might stay “higher for longer” than markets expect.

This hawkish talk is having what presumably is the desired effect. As of this week, investors now believe the fed funds rate will reach 3.4% in February and stay there for longer than they had previously expected.

No thanks for the confusion. If the Fed is going to raise rates aggressively, the FOMC should just do it. Officials who hold rotating voting seats on the committee such as Ms. Mester and Mr. Bullard could have expressed their hawkishness by casting dissenting votes in favor of a one-point increase. Officials who aren’t currently voting members, such as Ms. Daly and Mr. Evans, lack the political authority and accountability to set policy now, yet are trying to do so anyway with public comments.

Forward guidance was supposed to offer greater clarity about what the central bank is up to. The reality is that a chatty Fed is talking against itself and scrambling market signals at a challenging moment for the economy. It’s time to let Fed actions do the talking again.

Mercati oggiValter Buffo