Detox a Ferragosto: siete anche voi ubriachi?
 


Proprio la mattina di Ferragosto, nelle primissime ore, leggendo i quotidiani italiani, si leggono titoli celebrativi. Si celebra l’euforia. Si celebra l’ottimismo. Un po’ da tutte le parti.

Euforia derivata da che cosa? Ottimismo su che cosa?

Nessuno lo ha ben capito. Nessuno lo spiega con chiarezza. In pratica, ci viene detto di essere felici: ma nessuno ci dice il perché. Cia arriva l’ordine di essere, comunque, felici.

Poi si esce di casa, si incontrano persone, si fa la colazione, si parla con un amico oppure un conoscente: e si realizza che proprio nulla è cambiato. Il caldo resta terribile. Ed è quello, il caldo, che con ogni probabilità a Ferragosto genera confusione, confusione prodotta dall’ansia, dalla fretta, dallo stress.

Confusione che genera allucinazioni, miraggi, ed isteria collettiva.

Ed ecco quindi che leggere anche altri media, altre fonti, in particolare non italiane, a voi può essere utile a ritornare in contatto con la realtà, ad evitare i miraggi, e ad evitare di andare al muro a sbattere.

Perché su uno dei siti di Finanza più noti al Mondo e più visitati, ci si fa qualche domanda, sulla ubriacatura di ottimismo, e si toccano altri argomenti, diversi dall’euforia e dall’ottimismo. Argomenti che si possono toccare, più concreti. Argomenti che riguardano la vita di tutti noi: la vita vera, e non la vita sui social.

Proprio questa mattina, la mattina del Ferragosto 2025.

Nelle primissime ore del giorno di Ferragosto 2025, leggiamo anche questo titolo. Non è la stampa italiana, come vedete.

Nel titolo, viene citata l’euforia, vero: ma leggiamo pure dell’inflazione, dell’occupazione. E soprattutto leggiamo un nome a noi molto noto, il nome di una cosa che per i nostri lettori abbiamo analizzato più e più volte: la stagflazione.

E vale, sicuramente, la pena, per tutti gli investitori, di dedicare qualche minuto, qualche pensiero, e qualche riflessione proprio alla stagflazione, nel giorno del Ferragosto 2025.

Segnatevi queste parole: per il Ferragosto 2025, e per tutto il resto del 2025, la stagflazione è (molto) più importante di Putin.

E se voi siete invece in ansia per Putin, in questo giorno di Ferragosto, , allora Recce’d con qualche ora di anticipo vi svela come andrà a finire: Trump a voi dirà che “servono ancora 90 giorni”, proprio come ha fatto tre giorni fa per la Cina. E Putin avrà vinto sia la guerra sul terreno, sia quella diplomatica.

Quindi, pensate invece alla stagflazione: è nel vostro unico interesse.

Prestate attenzione (nel vostro interesse) a ciò che dice l’immagine qui sopra. Risale a mercoledì 13 agosto, subito dopo che gli Stati Uniti hanno pubblicato i dati aggiornati per l’inflazione. Che, come leggete anche nell’immagine, oggi sta al 3%.

Almeno, prestate attenzione alla frase più importante (per noi, per voi, per tutti).

“Stiamo accettando un Mondo ad alta inflazione”.

Oggi. Accade oggi, ed accade nella vita pratica. Sta accadendo anche a voi, siete voi che “accettate”: anche con i vostri BTp, quelli che “danno sicurezza”.

Quando noi, cinque anni fa, scegliemmo di mettere in evidenza il tema del quale scriviamo oggi, nel Post di Ferragosto, noi di Recce’d eravamo i soli a parlarne.

Annunciammo ai nostri lettori, in quel mese di agosto del 2020, l’arrivo della stagflazione. Capiamoci bene: noi, allora, cinque anni fa, annunciamo ai lettori l’arrivo di una nuova Era: non di due, tre, cinque anni, bensì di quindici, venti, trenta anni.

Adesso ci siamo dentro, tutti. Siamo tutti nell’Era Nuova, che è appunto l’era della stagflazione.

Stagflazione della quale nei mesi di luglio ed agosto del 2025, parlano letteralmente tutti.

Un esempio? Quello che vedete qui sotto è un titolo del giovedì 14 agosto, ovvero di ieri.

E riguarda le Borse europee (il minore entusiasmo degli ultimi mesi è spiegato dalla stagflazione) ed anche dell’Europa in generale. Proprio quell’Europa dove voi vivete e noi stessi viviamo ed operiamo.

Stagflazione che è confermata anche dati dati più recenti: inclusi quelli della settimana che si è appena conclusa, come vi abbiamo documentato con l’immagine di apertura..

Non fatevi ingannare dai titoli dei giornali e dalle frasi dei social, sui “nuovi massimi della Borsa di New York, o peggio ancora dai titoli sui “massimi della Borsa di Milano” (che non sono massimi, come abbiamo documentati ai nostri Clienti nell’ultima settimana, nella Sezione Operatività del quotidiano The Morning Brief, tra lunedì 11 agosto e venerdì 15 agosto.

Questi !nuovi massimi non significano che “le cose vanno molto bene”: esattamente come NON indicavano un messaggio di ottimismo nell’anno 2007 oppure nell’anno 2000.

A quei “nuovi massimi” si è arrivata solo per una ragione: terrorizzati dalla stagflazione, prima le Banche Centrali e poi i Governi (dall’anno 2020 ad oggi) hanno deciso che gonfiare tutti i prezzi di tutti gli asset (incluso in questo caso anche l’immobiliare) fosse il solo ed unico modo per tirare avanti, senza sprofondare, appunto, nella stagflazione.

Ma non dura. Non regge. L’edificio traballa, subisce scosse di terremoto sempre più evidenti. I politici lo sanno, Trump in particolare lo sa: ma lui è Donald Trump, e lui non teme nulla, lui non ha paura, lui senza imbarazzo scrive in un’unica frase che “l’economia americana va alla grande” ed anche che “il costo del denaro deve scendere allo 1%”.

Lui pensa che, scrivendo tutti in MAIUSCOLO e strillando ai quattro venti si possono risolvere le cose: e lui pensa questo perché lui sa che la massa è manipolabile, e va prima confusa per bene, e dopo, in modo velocissimo e silenzioso, va costretta a pagare per le scelte che lui, Trump, ha fatto.

Non è certamente il solo politico, a ragionar in questo modo. Ce ne sono stati altri nel passato e ne arriveranno altri in futuro.

L’investitore che cosa deve fare? Ogni investitore deve raggiungere due obbiettivi:

  1. proteggere; e

  2. guadagnare.

Come si fa?

Si tratta di due obbiettivi solo in apparenza opposti tra loro: se non proteggi, non puoi guadagnare nulla, e se guadagni, questo significa che hai saputo proteggerti bene dai rischi.

Per proteggere e guadagnare allo stesso tempo, ogni investitore ha necessità di comprendere a fondo il Mondo nel quale opera ed investe il proprio risparmio. Quel Mondo non è raccontato dai social, non viene raccontato dagli uomini politici, e soprattutto non viene raccontato dalle Reti di vendita, i cui ricavi (tutti) vengono dal piazzare Polizze assicurative, Fondi Comuni, GPM, Certificati e di recente anche “finanziamenti diretti all’economia reale” (private equity, finanziamenti privati, finanza strutturata, venture capital).

Ed altre cose che NON hanno un prezzo che l’investitore può leggere, consultare, confrontare. Ma il loro mestiere NON è fare rendere il vostro risparmio.

Il loro mestiere quello che paga le loro auto e le loro bollette, è solo quello di piazzare questa “merce, mercanzia” a voi, amici lettori ed investitori, che state leggendo questo Post. Una volta piazzata la mercanzia, poi … dopo vedremo come va.

Recce’d da oltre un decennio garantisce attraverso il suo sito con continuità supporti informativi e supporti decisionali per proteggere e guadagnare: supporti per migliorare la qualità delle proprie decisioni sull’allocazione del risparmio, per migliorare i propri risultati ed evitare di cadere nelle trappole (o almeno evitare le trappole abnormi che circolano oggi, nel 2025.

Abbiamo già scritto al lettore, alla pagina TWIT - TWOO del nostro sito: evitate (almeno) di fare la fine di Zelensky.

Lo ricordate Zelensky vero?


Dicevamo: Zelensky.

Quello che disse “la guerra finirà solo quando la Russia si sarà ritirata da tutto il territorio ucraino occupato”. Quello che disse “l’economia della Russia crollerà in tre mesi per effetto delle sanzioni”. Quello che disse “l’esercito russo sarà sconfitto perché abbiamo in dotazione armi migliori” Quello che disse “l’Occidente non ci abbandonerà mai perché noi difendiamo i loro valori”:

Non era vero. Lui si è sbagliato.

A voi lettori ed investitori invece dicono:

  • i mercati recuperano sempre

  • le Borse salgono sempre nel lungo periodo

  • un po’ di azioni ed un po’ di obbligazioni è il portafoglio ottimale

  • l’importante è non muoversi mai e rimanere al 1005 sempre investititi (ovviamente (su Fondi Comuni, GPM e polizze?

Beh, sappiatelo: nella Nuova Era della stagflazione queste sono balle. Non solo: sono proprio cose dannose, per i vostri risparmi. E quelli che a voi raccontano queste cose, quelli sono i nemici del vostro benessere finanziario.

Ed è anche una balla, specie in questa Nuova Era della stagflazione, quella che vi dice sempre quel vostro conoscente che è un falso amico: “con gli investimenti, è molto meglio fare da soli: tanto, è una cosa semplice, basta mezz’ora e hai già capito tutto … e poi se va male, lo tieni lì, per il lungo termine”.

Hanno venduto a milioni di risparmiatori i bond Parmalat, ed i bond Lehman Brothers, esattamente con questa tecnica di vendita. Vendevano di tutto, allora. Ma (attenzione!) proprio oggi, mentre ci leggete, stanno vendendo ancora di più, e di peggio (ma molto peggio davvero!).

Partiamo ora con una sintetica ricapitolazione dei fatti: leggete un po’ che cosa si scriveva solo tre giorni fa.


L'America sta mostrando nuovi segnali di stagflazione: l'inflazione è in aumento, il mercato del lavoro sta subendo una nuova debolezza e gli economisti avvertono che entrambi rischiano di peggiorare nei prossimi mesi.

Perché è importante: il termine "stagflazione" rievoca ricordi infelici degli anni '70, quando gli americani si trovavano ad affrontare una terribile combinazione di prezzi più alti e scarse opportunità di lavoro.

Il quadro generale: questa è stata la settimana in cui gli economisti tradizionali hanno trovato conferma.

Le previsioni di una crescita più debole e di un'inflazione più persistente – la "stagflazione" e la "flazione" – sembravano inverosimili, fino ad ora.

Cosa dicono: "In sostanza, il rischio di stagflazione è aumentato in modo significativo", ha scritto Olu Sonola, economista di Fitch Ratings, in una nota ai clienti.

"L'inflazione si sta allontanando sempre di più dall'obiettivo, la crescita economica del settore privato ha subito un rallentamento significativo e il mercato del lavoro ha appena lanciato un campanello d'allarme".

Un rapido aggiornamento: Trump ha licenziato il massimo funzionario del Bureau of Labor Statistics venerdì, poche ore dopo che l'agenzia aveva segnalato una crescita occupazionale inferiore alle aspettative.

Ha affermato, senza prove, che i numeri erano stati manipolati politicamente.

In un'intervista con Axios, il principale economista della Casa Bianca, Stephen Miran, ha concordato sul fatto che il BLS avesse bisogno di una nuova leadership per affrontare le massicce revisioni dei dati, ma non ha affermato che i numeri fossero stati manipolati.

In cifre: l'economia ha creato solo 73.000 posti di lavoro il mese scorso, mentre le revisioni al ribasso storiche suggerivano che il mercato del lavoro non avesse creato quasi nessun posto di lavoro nei due mesi precedenti.

Cosa sta succedendo: questa è la parte “STAG-". Ora consideriamo gli altri indicatori pubblicati la scorsa settimana.

💰 PIL: l'economia è cresciuta a un tasso annualizzato del 3% nel secondo trimestre, spinta dall'inversione di tendenza dell'attività di importazione senza precedenti nel primo trimestre. Analizzando il rapporto, la situazione della crescita appare peggiore.

Un indicatore della domanda interna di fondo – che esclude le oscillazioni del commercio, delle scorte e della spesa pubblica – è aumentato solo dell'1,2% nel secondo trimestre, il tasso più debole dalla fine del 2022.

🛒 Inflazione: l'indicatore di inflazione di riferimento della Fed è aumentato negli ultimi due mesi del secondo trimestre, nonostante la crescita di fondo in calo.

L'indice dei prezzi per consumi personali è aumentato del 2,6% nei 12 mesi fino a giugno, il secondo aumento consecutivo.

L'indicatore che esclude alimentari ed energia è aumentato del 2,8%, in leggero rialzo rispetto a maggio.

Tra le righe: la raccolta di dati, in particolare il debole rapporto sull'occupazione, rafforza la tesi che la Federal Reserve taglierà i tassi di interesse a settembre.

Ma le preoccupazioni inflazionistiche rimarranno comunque al centro dell'attenzione della Fed. Ci sono primi segnali che i dazi di Trump stiano spingendo i prezzi al rialzo. Nessuno sa se questi aumenti saranno persistenti.

Per la cronaca: "Ci siamo già trovati in questa situazione quando si parlava di catastrofi su larga scala... riguardo al Tax Cuts and Jobs Act e ai dazi imposti dal Presidente alla Cina durante il primo mandato", afferma Miran.

Tutti questi "catastrofismi" si sono rivelati sbagliati, ha detto Miran.

Ha aggiunto che c'erano buone ragioni per credere che l'economia si sarebbe rafforzata da qui in poi, citando la legge fiscale e di spesa di Trump, nonché una serie di recenti accordi commerciali.

In conclusione: se Trump otterrà il taglio dei tassi che desiderava, potrebbe essere per una ragione che probabilmente detesta: un rallentamento dell'economia.

Se non lo otterrà, sarà perché i responsabili delle politiche economiche considerano ancora l'inflazione un rischio troppo grande.


Ecco a voi una (estrema) sintesi dei dati aggiornati e disponibili: quello che avete appena letto è (in estrema sintesi) ciò che noi sappiamo al Ferragosto del 2025.

Detto che questa è la realtà, così come noi investitori la conosciamo, ora va fatto il lavoro di analisi, per poi arrivare a decisioni consapevoli, ed al tempo stesso protettive e vincenti.

Leggiamo, in ciò che segue, come questo lavoro di analisi è stato fatto da un soggetto che il lavoro di analisi lo sa fare, e molto molto bene. Si tratta del molto conosciuto (tra gli operatori di mercato) Torsten Slok.

Le sue considerazioni che state per leggere risalgono a una decina di giorni fa: ovvero, PRIMA che fosse pubblicato il dato per l’inflazione del quale avete letto poco sopra. Da allora, i segnali si sono rafforzati.

Di William Watts

"Il tema della stagflazione sui mercati si sta intensificando": Slok di Apollo

I timori di stagflazione non sono svaniti.

Il mercato azionario si è ripreso dall'oscillazione innescata da un indicatore economico attentamente monitorato all'inizio di questa settimana, ma gli investitori dovrebbero fare attenzione a non farsi cogliere impreparati dalla potenziale minaccia di stagflazione che ha contribuito a evidenziare, ha avvertito giovedì un economista di Wall Street molto seguito.

"In sostanza, il tema della stagflazione sui mercati si sta intensificando", ha affermato Torsten Slok, capo economista di Apollo Global Management, in una nota. Stagflazione è un termine che si riferisce alla sgradita combinazione di crescita economica stagnante e inflazione in aumento.

Il dibattito sulla stagflazione si è intensificato dopo la pubblicazione, martedì, dell'indicatore di luglio dell'attività del settore dei servizi dell'Institute for Supply Management. L'indice dei prezzi pagati, un indicatore dell'inflazione, è salito di 2,4 punti, raggiungendo quota 69,9 e raggiungendo il massimo degli ultimi tre anni, indicando una potenziale pressione al rialzo sull'indice dei prezzi al consumo (vedi grafico sotto).

L'indice ISM non manifatturiero è sceso al 50,1% a luglio dal 50,8% del mese precedente, segnalando una crescita limitata del settore dei servizi, dominante nell'economia (una lettura inferiore al 50% indica una contrazione dell'attività).

Allo stesso tempo, la crescita dell'occupazione sta rallentando e il tasso di disoccupazione è in aumento, ha affermato Slok. L'"impulso alla stagflazione" è il risultato di dazi, deportazioni e un indebolimento del dollaro statunitense, ha sostenuto.

Lauren Goodwin, economista e responsabile della strategia di mercato presso New York Life Investments, ha evidenziato questi e altri fattori in una nota all'inizio di questa settimana.

"La politica commerciale sta influenzando i prezzi; la politica sull'immigrazione sta influenzando l'offerta di lavoro; la deregolamentazione sta dando un'ulteriore scossa ai settori in crescita; gli aggiustamenti fiscali rendono gli investimenti di capitale più facili da digerire. La combinazione di questi fattori con i recenti dati economici segnala un chiaro contesto di 'stagflazione leggera'", ha scritto.

Goodwin ha invitato alla cautela per quanto riguarda il debito a più lunga scadenza, sostenendo che il rendimento del titolo del Tesoro decennale probabilmente tornerà verso il 4,5%. Il rendimento era al 4,22% giovedì; rendimenti e prezzi del debito si muovono in modo opposto.

La stagflazione significherebbe che la vita rimane complicata per i responsabili delle politiche della Federal Reserve, ha affermato Slok. I responsabili delle politiche dovrebbero "concentrarsi sull'aumento dell'inflazione e aumentare i tassi, o sul rallentamento della crescita e tagliare i tassi?", ha scritto.

L'incertezza circonda l'impatto finale che le misure tariffarie dell'amministrazione Trump avranno sull'inflazione nel settore dei servizi.

"La domanda è se l'aumento dei costi dei beni dovuto alla guerra commerciale si tradurrà in una minore domanda di servizi e, di conseguenza, in una pressione al ribasso sull'inflazione nel settore", hanno scritto giovedì in una nota Ian Lyngen e Vail Hartman, strateghi dei tassi di interesse di BMO Capital Markets.

"Non è una dinamica difficile da prevedere; anche se sospettiamo che, se queste forze dovessero effettivamente entrare in gioco, ci saranno ritardi nei tempi", hanno scritto. In altre parole, è improbabile che la lettura dell'indice dei prezzi al consumo della prossima settimana sia definitiva.


La banca centrale ha mantenuto i tassi invariati fino al 2025 in attesa di chiarezza sull'impatto dei dazi sul quadro dell'inflazione, scatenando l'ira del presidente Donald Trump, che ha incessantemente criticato il presidente della Fed Jerome Powell.

Il deludente rapporto sull'occupazione di luglio di venerdì scorso e le conseguenti revisioni al ribasso dei dati di maggio e giugno hanno portato gli investitori ad aumentare le aspettative di una ripresa dei tagli dei tassi. Secondo il CME FedWatch Tool, i trader di futures sui Fed fund hanno scontato una probabilità del 93% di un taglio di un quarto di punto alla prossima riunione di politica monetaria di settembre, in aumento rispetto a meno del 40% di una settimana fa. Gli operatori prevedono una probabilità leggermente superiore al 50% di un totale di tre tagli di un quarto di punto entro la fine dell'anno.

Queste aspettative di taglio dei tassi, insieme agli utili aziendali ben accolti e a un'altra ondata di ottimismo sulle strategie di intelligenza artificiale, hanno contribuito a far salire i titoli azionari, hanno affermato gli analisti, con l'S&P 500 SPX scambiato a meno dell'1% dalla sua chiusura record di 6.389,77 punti registrata il 28 luglio; l'indice di riferimento per le large cap è in rialzo dell'1,7% questa settimana. Il Nasdaq Composite COMP è salito del 3% da inizio settimana, mentre il Dow Jones Industrial Average DJIA è rimasto indietro con un guadagno dello 0,8%.

"Il mercato si aspetta chiaramente dei tagli, ma i rischi al rialzo per l'inflazione sono significativi e gli investitori dovrebbero monitorare attentamente le misure delle aspettative di inflazione basate su sondaggi e mercato", ha scritto Slok.

-William Watts

Tra le mille letture su questo tema, abbiamo ovviamente selezionato quelle che per il nostro lettore risultano di maggiore significato, ed applicabilità al suo attuale portafoglio, specie se si tratta del classicissimo portafoglio delle Reti di vendita (le varie Mediolanum, Fineco, Fideuram, Allianz, Generali, e tutte le altre) fatto di Fondi Comuni, polizze, GPM e prodotti oscuri e senza un prezzo come “finanziamenti all’economia reale”, venture capital, e tutte le diverse etichette commerciali,

Ne proponiamo un secondo, di commento con analisi, nel testo che segue.

Come sempre, vi faremo leggere anche indicazioni operative, precisando che Recce’d ha costruito gli attuali portafogli modello sulla base di scelte DIVERSE da quelle che leggete qui nel brano che segue. Resta giusto mette ogni lettore nella condizione di fare sue valutazioni e fare confronti.

Del brano che segue, è l’analisi di qualità dei fatti e dei dati. Per fare successivamente le scelte operative sui portafogli, vi invitiamo a contattarci, attraverso la pagina CONTATTI del nostro sito.

“Se si guarda attraverso il parabrezza anteriore anziché attraverso lo specchietto retrovisore, è chiaro che la stagflazione sta arrivando negli Stati Uniti."

Questa è l'opinione di Savvas Savouri, amministratore delegato di QuantMetriks, una boutique di consulenza economica con sede a Londra.

Come si può immaginare, dopo una lunga carriera trascorsa nel mondo accademico, in diverse banche d'investimento e un lungo periodo come economista presso la società di gestione fondi Tosca Capital, Savouri ha opinioni forti su economie, mercati e prezzi degli asset, e le esprime in modo inequivocabile.

Le sue opinioni sulla direzione dell'economia statunitense sono enfatiche: l'inflazione sta salendo, il dollaro sta scendendo e la curva dei rendimenti si sta irripidendo.

Le pressioni inflazionistiche che cita sono triplici: un dollaro in calo (che rende le importazioni più costose), le restrizioni alla manodopera migrante a basso costo che fanno aumentare i costi e i dazi più elevati. Il fatto che l'impatto dei dazi non si sia ancora manifestato nei dati è dovuto al fatto che si tratta di indicatori ritardati, afferma.

Savouri è fermamente convinto che i dazi possano essere solo inflazionistici, come, sottolinea, è stato quasi tutto il manifesto della campagna di Trump. Cita in particolare le promesse di riportare in patria la produzione manifatturiera e il One Big Beautiful Bill Act di inizio estate, che lui considera "stampa di moneta".

In una nota intitolata "The Inflationator vs The Powell", Savouri ha previsto che il mandato di Powell alla Fed potrebbe essere molto più breve della data ufficiale di partenza di maggio 2026, a causa delle pressioni esercitate dalla Casa Bianca.

Traccia un'analogia con i governatori delle banche centrali di Giappone (Shirakawa nel 2013) e Turchia (Agbal nel 2021), che furono licenziati per non aver tagliato i tassi quando i leader politici lo chiesero. Non furono tanto "i banchieri centrali [a] essere cacciati dal giro monetario", scherza, "ma le rispettive valute".

Date le sue aspettative per Powell, la direzione dei tassi di interesse e dell'inflazione di allora, forse non sorprende che Savouri sia decisamente ribassista sul dollaro, descrivendo un momento di turbo-paralisi alla Wile E. Coyote prima che cada vittima della gravità.

Questo potrebbe essere accolto con favore dall'amministrazione Trump. In effetti, una delle principali preoccupazioni di Savouri è che qualsiasi incontro tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping quest'anno porterà a un accordo da parte di Pechino per consentire al renminbi di apprezzarsi e contribuire a rendere i beni statunitensi più competitivi. Ritiene che l'attuale ancoraggio del dollaro al dollaro di Hong Kong verrà quindi rimosso.

A suo avviso, se il dollaro scende di pari passo con i tagli dei tassi della Fed e l'aumento dell'inflazione, la curva dei rendimenti dei titoli del Tesoro statunitensi dovrà irripidire (i rendimenti a lungo termine aumenteranno più rapidamente rispetto a quelli a breve termine) in modo ancora più netto di quanto non abbia già fatto.

Savouri chiede, retoricamente: "Chi comprerà debito statunitense a lungo termine perché [Trump] ha appena lanciato una guerra commerciale contro gli acquirenti tradizionali?"


La sua raccomandazione agli investitori che cercano di proteggersi da tali movimenti avversi è di acquistare TIPS – o Treasury Inflation-Protected Securities, le obbligazioni indicizzate all’inflazione, che adeguano i pagamenti degli interessi in base all'inflazione.

Ritiene anche che questi sviluppi negativi potrebbero essere vantaggiosi per le azioni, ma non per tutte. Sostiene che l'inflazione sia positiva per quei titoli – in particolare per le large cap/big tech che possono trasferire i costi ai consumatori – che hanno una buona percentuale dei loro guadagni all'estero in altre valute e i cui bilanci sono sufficientemente solidi da gestire un contesto di tassi più elevati.

L'S&P 500 potrebbe quindi andare bene, ma il Russell 2000 o altre small/mid cap che operano solo in America, o i cui bilanci presentano un elevato debito a breve scadenza che dovrà essere rifinanziato a tassi di interesse estremamente elevati, faranno fatica, avverte Savouri.

Non è un sostenitore delle criptovalute come metodo per proteggersi da potenziali crisi del dollaro, e anzi ritiene che la loro adozione rappresenti ora un rischio sistemico per l'infrastruttura finanziaria americana. Ma Savouri apprezza l'oro come contropartita del dollaro ed è convinto che la demografia e i fondamentali australiani rendano il dollaro australiano la scommessa migliore sui mercati valutari.

Dato tutto ciò che avete appena letto, non vi stupirà il fatto che la Banca Centrale americana, che si chiama Federal Reserve, sia nell’occhio del ciclone. Lo leggete anche nell’immagine qui sotto..

La prossima settimana, dal 21 al 23 agosto 2025, si terrà il Summit Annuale di Jackson Hole tra banchieri centrali, che in molte occasioni ha mosso i mercati (e in qualche occasione li ha proprio sconvolti, come forse ricordate).

Ed ecco che noi vogliamo regalare, grazia alla nostra accurata selezione ed analisi, la migliore introduzione possibile a questo importante evento, collegandola ovviamente a ciò che sono a qui avete letto nel nostro Post.

E quindi in modo particolare alla stagflazione.

Anche questo articolo risale a una decina di giorni fa (e quindi, è stato scritto prima del dato per l’inflazione commentato sopra, in apertura.

La conclusione di questo articolo contiene indicazioni a carattere operativo che possono essere immediatamente utili per la vostra gestione del portafoglio titoli, per rivedere la vostra attuale asset allocation, e per rivedere anche la vostra futura strategia di investimento.

Leggete anche con attenzione i dati nei grafici: vi servirà molto, per comprendere ciò che sta arrivando.

La Federal Reserve è in difficoltà. Dopo i dati incredibilmente deboli sull'occupazione di venerdì – e con l'inflazione ostinatamente al di sopra del trend – sta diventando chiaro che i doppi mandati della banca centrale di massima occupazione e stabilità dei prezzi sono entrambi fuori luogo e spingono in direzioni opposte. Cosa dovrebbe fare la Fed?

L'inflazione richiede che la Fed mantenga la rotta, o addirittura aumenti i tassi, eppure il peggioramento del quadro occupazionale suggerisce alla banca centrale di tagliare ora se vuole contribuire a evitare una recessione. Indipendentemente da ciò che farà la Fed, un mandato rimarrà fuori luogo.

La strada migliore è rimandare i tagli dei tassi e affrontare lo spettro di un'inflazione elevata ora, piuttosto che rimandare scelte politiche che potrebbero diventare più dolorose in futuro.

Ecco cosa deve affrontare la Fed

L'impatto inflazionistico dei dazi di Donald Trump sta iniziando a farsi sentire. I dati pubblicati la scorsa settimana hanno mostrato che il dato sull'inflazione di fondo preferito dalla Fed, basato sulla spesa per consumi personali (PCE), è aumentato del 2,8% a giugno rispetto all'anno precedente. La prossima settimana, il rapporto governativo sui prezzi al consumo dovrebbe mostrare un aumento dell'inflazione di fondo del 3% a luglio, nell'arco dell'anno fino a luglio. Entrambi i dati sono superiori all'obiettivo e si prevede che aumenteranno ulteriormente.

L'unica ragione per cui le banche centrali non stanno aumentando i tassi in questo contesto è perché temono che il mercato del lavoro stia per subire un duro colpo. Realisticamente, lo ha già fatto. Il rapporto della scorsa settimana ha rivelato che 7,2 milioni di persone erano disoccupate negli Stati Uniti a luglio. Sebbene questo dato sia solo marginalmente superiore ai 7,1 milioni di un anno fa, è in aumento rispetto ai 6,8 milioni di gennaio, il che segnala un'inversione di tendenza in questo settore. Se a ciò si aggiunge il fatto che la partecipazione alla forza lavoro è nuovamente diminuita il mese scorso, si evince che ci sono molte più persone disoccupate o che hanno semplicemente rinunciato e abbandonato del tutto la forza lavoro.


L'andamento della disoccupazione negli Stati Uniti è preoccupante

1,4 milioni di disoccupati in più rispetto a tre anni fa

Fonte: Bloomberg

In cifre: 62,2% - Il tasso di partecipazione al lavoro a luglio 2025 è stato il più basso da novembre 2022. Al netto della pandemia, è il più basso dagli anni '70.


Aspettative contro realtà

Il mercato degli swap sconta una probabilità superiore all'80% che la Fed tagli i tassi nella prossima riunione di settembre. Ma ci sono molti altri dati da analizzare prima di allora, incluso il prossimo rapporto sull'indice dei prezzi al consumo (IPC) del prossimo 12 agosto.

Se i dati sull'inflazione dovessero aumentare in modo significativo, la Fed potrebbe non essere in grado di tagliare affatto quest'anno e la reazione del mercato sarebbe negativa. Ma è un fattore negativo? Possiamo rispondere a questa domanda con questo grafico degli anni '70. Mostra i rendimenti decennali, corretti per l'inflazione, durante la stagflazione degli anni '70.

Gli anni '70 sono stati terribili per le azioni

Le politiche macroeconomiche inflazionistiche dopo gli anni '60 hanno danneggiato i rendimenti

Fonte: Edward Harrison, Bloomberg


La scorsa settimana ho scritto che la performance in calo era una conseguenza delle politiche macroeconomiche inflazionistiche degli anni '60, quando la guerra in Vietnam e i programmi della Great Society non furono compensati da una politica monetaria più restrittiva. Ma le politiche di Donald Trump sono probabilmente ancora più inflazionistiche, dati i deficit statunitensi in forte crescita. La pressione sui prezzi dovuta ai dazi potrebbe, come lo shock petrolifero del 1973, disancorare definitivamente le aspettative di inflazione. Inoltre, come spesso afferma Powell, un contesto sano per la crescita dell'occupazione include prezzi stabili.

Naturalmente, se l'indice dei prezzi al consumo (IPC) della prossima settimana sarà positivo (12 agosto), ciò potrebbe ridurre la necessità di mantenere la calma. Ma contenere l'inflazione sopra il 3% ed evitare che si consolidi è il compito principale della Fed.

Arthur Burns ci ha mostrato l'alternativa

Se i dati sull'inflazione fossero negativi e la Fed tagliasse comunque i tassi, gli investitori probabilmente aumenterebbero l'assunzione di rischi e allo stesso tempo richiederebbero un premio più elevato per acquistare titoli del Tesoro a lunga scadenza. L'economia potrebbe risollevarsi, ma lo stesso accadrebbe per l'inflazione, vanificando qualsiasi spinta. Questo è ciò che accadde per gran parte degli anni '70, quando la Fed aumentò i tassi, ma non abbastanza da tenere sotto controllo l'inflazione.

La Fed aumentò i tassi per combattere l'inflazione negli anni '60 e '70

Non fu sufficiente a impedire all'inflazione di aumentare ulteriormente

Fonte: Bloomberg


L'impatto negativo sulle azioni fu terribile durante le terribili recessioni di quel periodo. Ma anche durante le fasi di ripresa che si verificarono, l'inflazione distrusse i rendimenti, producendo il grafico sopra con una performance profondamente negativa per un decennio.

Rischiamo ora uno scenario del genere. I mercati sono pronti per un taglio dei tassi. Il primo taglio è scontato per oltre l'80% per la riunione della Fed del mese prossimo. Ma questo potrebbe essere il risultato peggiore sia per le azioni che per le obbligazioni. L'ultima esperienza con la stagflazione ci insegna che i tagli dei tassi che sembrano positivi nel breve termine si ripercuotono negativamente sul lungo termine.

Le cose che oggi tengo sotto strettissima osservazione.

  • Le tasse d'importazione del 50% sui prodotti indiani e quelle del 39% sulla Svizzera non sono ancora state pubblicate. Se dovessero essere applicate, significherebbe ulteriore inflazione.

  • Gli indicatori del sentiment potrebbero essere in rosso. Ma il mercato azionario ha comunque registrato un rialzo in seguito alle notizie su India e Svizzera. Solo il dollaro e i rendimenti obbligazionari hanno subito un duro colpo.

  • La forte crescita degli utili delle azioni tecnologiche a grande capitalizzazione è una delle ragioni. Trump ha pubblicizzato che Apple, ad esempio, stava investendo miliardi in più negli Stati Uniti. Il titolo è schizzato alle stelle.

  • La morale della favola: le azioni salgono finché l'economia è in espansione, anche durante periodi di maggiore inflazione. Ma le perdite dovute alla recessione sono più gravi quando le azioni sono sopravvalutate o l'inflazione è elevata.

Per completare il lavoro di oggi, siamo costretti a ritornare su Donald Trump: è lui stesso, il biondo Donald, a costringerci ad occuparci di lui, vista la veemente, insistita e forse disperata volontà di occupare, con un vero e proprio bombardamento di dichiarazioni strillate, minacce reiterate, insulti in varie direzioni, promesse (realizzabili?) e previsioni (affidabili?), ogni possibile spazio sui social, sui media, in TV ed in radio.

Scegliamo, per chiudere il nostro Post, un articolo firmato da due membri della amministrazione precedente (Biden): e quindi, due avversari politici di Trump.

Scegliamo questa analisi, perché anche una volta scontato il “pregiudizio politico” dei due autori (che voi lettori di Recce’d sarete bravissimi ad individuare e scartare), rimane una analisi di qualità, che mette in grande evidenza i legami, che noi di Recce’d giudichiamo molto stretti, tra la situazione che noi investitori affrontiamo oggi, e quella che tutti gli investitori furono costretti ad affrontare tra il 1970 ed il 1990.

Ripetiamo ancora una volta: Recce’d NON condivide tutto, dell’articolo che segue. Un esempio evidente e concreto riguarda le tariffe, che sono centrali nel ragionamento fatto dai due autori, e che per noi (come ben sanno i nostri lettori) contano nulla, nella pratica e soprattutto per i mercati finanziari.

Ma anche in questo caso ciò che è importante è il modo di leggere i fatti ed il lavoro di analisi sottostante. Abbiamo detto degli anni 1970-1990: chi era allora investito sui mercati finanziari, non dimenticherà mai. Recce’d con voi ne ha già parlato: e saremo costretti (dai fatti) a parlarne ancora, ed ancora …

Fatevelo raccontare: vi sarà estremamente utile, per ciò che oggi, domani e nei prossimi venti anni siete costretti ad affrontare. Cercando sia di proteggere sia di guadagnare attraverso l’investimento del vostro risparmio.

Di Jared Bernstein e Ryan Cummings

Il signor Bernstein è stato presidente del Consiglio dei Consulenti Economici del Presidente Joe Biden dal 2023 al 2025. Il signor Cummings ha ricoperto il ruolo di economista nel Consiglio dal 2021 al 2023.

Da quando il Presidente Trump è entrato in carica, gli economisti hanno atteso che le sue politiche si facessero strada nell'economia statunitense e ne rivelassero le conseguenze. I dati soft, per lo più sondaggi condotti su consumatori e imprese che monitorano le opinioni delle persone sull'economia, sono calati drasticamente mesi fa, mentre i dati hard – occupazione, crescita del PIL, inflazione – sembravano tutti a posto. Ma di recente, è emersa una serie significativa di dati economici hard che hanno giustamente fatto scattare l'allarme sul rallentamento della crescita e sull'aumento dell'inflazione, una temuta combinazione economica nota come stagflazione.

I dazi di Trump stanno ora chiaramente alimentando l'inflazione, in particolare su beni come elettrodomestici, automobili e prodotti alimentari. Nei primi sei mesi dell'anno, la spesa al consumo reale (ovvero corretta per l'inflazione), il principale motore dei cicli economici e di una robusta espansione economica, è cresciuta a malapena, dopo essere aumentata del 3% lo scorso anno. La crescita del PIL ha rallentato di circa la metà, all'1,2% quest'anno dal 2,5% dell'anno scorso. Quando la crescita complessiva cala così bruscamente, il mercato del lavoro tende a seguire la stessa tendenza, ed è esattamente ciò che è accaduto: la crescita dell'occupazione, con una media di 35.000 posti di lavoro al mese tra maggio e luglio, è pericolosamente vicina alla fase di stallo.

Mentre i presidenti si attribuiscono sempre il merito delle buone notizie economiche e cercano di sviare quelle cattive (nel caso di questo presidente, licenziando il messaggero che le ha portate), è spesso difficile collegare ciò che sta accadendo nell'economia all'attuale amministrazione. Non questa volta. Che si tratti di dazi storicamente elevati che non sembrano mai stabilizzarsi, di deportazioni che minacciano di compromettere seriamente l'offerta di lavoro in settori come l'edilizia e la sanità, o di una legge alla rovescia, rovinosa per il bilancio, che sottrae denaro a chi ha maggiori probabilità di spenderlo, le politiche di Trump hanno spinto l'incertezza economica a livelli mai visti prima dall'inizio della pandemia. Questa incertezza ha frenato investimenti, assunzioni e consumi, mentre i dazi aumentano i prezzi. In altre parole: stagflazione.

Per molti adulti americani, lo spettro della stagflazione può evocare ricordi degli anni '70. Ma se la stagflazione di Trump continua a crescere, sarà diversa per un aspetto molto importante: il danno economico sarà quasi interamente autoinflitto. Negli anni '70, la stagflazione non fu causata da un presidente senza vincoli, ma da "shock esogeni", ovvero grandi e inaspettati sconvolgimenti originati da eventi esterni al Paese ed esacerbati dall'inazione della Federal Reserve nel compensarli.

Il più grande e famoso di questi shock ha riguardato il mercato petrolifero. A causa dell'embargo petrolifero imposto dall'Organizzazione dei Paesi Arabi Esportatori di Petrolio agli Stati Uniti nel 1973 e della Rivoluzione iraniana del 1979, il prezzo del petrolio è più che decuplicato. Di conseguenza, nel 1980, gli Stati Uniti spendevano in petrolio circa sei volte di più rispetto al 1970. Questo cambiamento si è riverberato in tutta l'economia e ha portato l'inflazione a un picco di quasi il 15% entro la fine del decennio.

In quella che è ormai una famosa storia dell'orrore di una politica monetaria andata male, la Fed non solo non è riuscita a rispondere alle crescenti pressioni inflazionistiche degli anni '70, ma le ha attivamente aggravate. La ragione era in parte politica: Arthur Burns cedette alle pressioni della Casa Bianca di Nixon affinché ignorasse le preoccupazioni sull'aumento dell'inflazione e mantenesse bassi i tassi di interesse per contenere la disoccupazione. (Vi suona familiare?) La conseguente crisi di stagflazione terminò solo quando il nuovo presidente della Fed, Paul Volcker, aumentò i tassi a quasi il 20% nel 1980, provocando una profonda e dolorosa recessione.


Naturalmente, la stagflazione degli anni '70 generò tassi di inflazione e disoccupazione molto più elevati di quelli attuali. All'epoca, entrambi i tassi raggiunsero le doppie cifre, mentre oggi sono relativamente bassi, con la disoccupazione al 4,2% e l'inflazione al 2,7%. Anche i fattori sottostanti che determinarono la stagflazione erano diversi. Oggi non ci sono shock esogeni paragonabili alla carenza di petrolio. (Il prezzo del petrolio è relativamente basso, sebbene si preveda che gli attacchi di Trump alla produzione di energia pulita nel mezzo di un boom della domanda di energia alimentato dall'intelligenza artificiale si tradurranno in un aumento dei prezzi dell'elettricità per molti americani.)

E fortunatamente, la Fed di oggi sta applicando attivamente gli insegnamenti appresi dall'era Volcker. Sebbene Trump insista costantemente con Jerome Powell affinché abbassi aggressivamente i tassi di interesse – chiedendo un taglio inaudito e sconsiderato di 3 punti percentuali – Powell e gli altri membri del consiglio direttivo della Fed hanno esplicitamente sottolineato e implicitamente mantenuto la loro indipendenza; le loro decisioni sono guidate dai dati, non dalla politica. A differenza delle loro controparti degli anni '70, sono anche pienamente consapevoli dell'importanza di garantire che consumatori e imprese si fidino dell'impegno della banca centrale nel riportare l'inflazione al suo obiettivo del 2% e mantenerla lì.

Anche in questo caso, Trump sta causando i suoi problemi, in due modi. In primo luogo, se le aziende che contribuiscono a stabilire i prezzi o a decidere i salari iniziano a credere che la Fed stia cedendo alle incessanti pressioni di Trump, aumenteranno i prezzi in previsione di un'inflazione più elevata e a lungo termine. Ciò costringerà la Fed a reagire con tassi più elevati per ripristinare e mantenere il suo obiettivo di inflazione. In secondo luogo, la combinazione di tassi di interesse più elevati – che si traducono in tassi più elevati su mutui, carte di credito e prestiti auto – e prezzi più elevati non farà che aggravare la principale lamentela degli americani sull'economia attuale: il costo della vita.

Ironicamente, il fatto che l'attuale stagflazione incipiente porti l'impronta di Trump è una buona notizia. L'assenza di shock esogeni e l'esistenza di una banca centrale altamente competente ci suggeriscono che la sua agenda politica distruttiva potrebbe essere invertita, sebbene il tempo stia per scadere.

Se Trump dichiarasse vittoria e ponesse fine alla sua guerra commerciale, le prospettive di stagflazione diminuirebbero significativamente. Consumatori e lavoratori vedrebbero rapidamente migliorare le loro prospettive. Ma, semmai, Trump sembra raddoppiare gli sforzi.

Sia nelle cause che nei sintomi, quella che stiamo vivendo non è la stagflazione “di vostro padre”. Con Trump al comando, c'è una probabilità spiacevolmente alta che sia “la vostra”, ovvero una cosa del tutto nuova e più dolorosa che in passato.

Valter Buffo
Detox. Perché sui mercati Trump non incide?
 

Proprio nelle ultime settimane, l’iper attivismo del Presidente americano Trump ha toccato vertici mai toccati prima.

Parliamo di iper-attivismo non nel senso di decisioni prese e di atti concreti. No, non si tratta di questo.

L’iper-attivismo del Presidente americano si traduce, per intero, in parole. Parole, parole, parole: un fiume di parole, come diceva quella canzone di successo che vinse tanti anni fa il Festival di Sanremo.

Un fiume di parole, attraverso dichiarazioni, interviste, tweet: occupando ogni possibile spazio, ed ogni minuto dell’attenzione del pubblico.

Dal giorno della sua elezione ad oggi, decine di migliaia di annunci, promesse, ultimatum, minacce, insulti e incontri diplomatici, come quello appena annunciato per Ferragosto con il Presidente russo Putin.

Risultati concreti? Ne possiamo elencare pochissimi.

In particolare, la Borsa di New York proprio si rifiuta di reagire.

Avrete letto centinaia, o forse migliaia di volte, che “la Borsa di New York ha chiuso a livelli record”: ma sempre si trattava di variazioni piccolissime: proprio minuscole, solo decimali. Ve lo documentiamo nel grafico qui sotto. Oggi, le vostre 100 lire investite alla Borsa di New York valgono tanto quanto valevano agli inizi di dicembre del 2024, ovvero otto mesi fa.

E così, proprio per documentare quello che diciamo, siamo costretti a riproporre nel nostro Blog, e per la terza volta, sempre lo stesso grafico, che risale alla fine del giugno scorso. Ieri, venerdì 8 agosto 2025, questo indice valeva alla chiusura 6390 punti circa. 200 punti di movimento, dopo 8 mesi. 200 punti sono la variazione di questo indice in giornate di media volatilità: tra le ore 9,30 e le ore 16. E sempre venerdì 8 agosto, abbiamo lasciato il Titolo di Stato decennale al 4,30% di rendimento, il cambio tra euro e dollaro USA ad 1,1650, il cambio tra yen e dollaro USA poco sotto 1,50, l’indice europeo di Borsa ancora a 547 punti, il rendimento del Bund tedesco decennale sempre a 2,70%, e la lista potrebbe (molto facilmente)essere allungata con altri prezzi ed altri mercati.

Solo l’oro, si è mosso. L’unica eccezione alla palude.

Il grafico dice che la Borsa di New York, e quindi in generale le Borse, non condividono il tono euforico utilizzato sempre dal Presidente Trump: il quale afferma, ogni giorno, che “l’economia va alla grande”, e poi che “i tassi di interesse ufficiali presto scenderanno”, e poi anche che “le tariffe porteranno miliardi nelle casse dello Stato americano”. Dice Trump che “l’economia americana va bene come mai prima!”

Ma per il momento, sembra proprio (guardando ai prezzi su tutti i mercati finanziari) che a quelle sue affermazioni forti, e ripetute ogni giorno, e urlate con forza, creda unicamente lui, e i suoi più stretti collaboratori.

Perché?

L’immagine qui sopra spiega il perché, almeno per ciò che riguarda il tema “tariffe”.

L’immagine spiega che solo negli ultimi giorni Trump si è rimangiato la parola data con molti Paese, dopo che lui stesso aveva annunciato alla stampa ed ai media e via social “grandi accordi commerciali” proprio con tutti i Paesi colpiti la settimana scorsa da nuove tariffe.

Gli annunci di “nuovi grandi accordi sulle tariffe”, fino ad oggi sempre accolti dai mercati finanziari con grande cautela, da oggi in poi quindi verranno del tutto ignorati, sui mercati finanziari.

L’immagine dice che già oggi “i mercati stanno del tutto ignorando i titoli che riguardano le tariffe”.

Ma allarghiamo lo sguardo: per quale ragione i mercati non danno a Trump ciò che lui vuole? Ciò che lui vorrebbe si chiama “euforia”. Sui mercati finanziari non c’è “euforia”, Nonostante i tweet, nonostante i proclami, nonostante le minacce, Nonostante i falsi accordi.

Il tema del nostro Post di oggi è ancora Detox, e naturalmente anche ciò che fa da contorno a Detox. Il Post di oggi approfondisce le angolazioni, le scelte, i modi di proporre questo tema che vengono utilizzati dalla stampa in Italia.

Come abbiamo già spiegato in precedenza, il nostro lavoro di selezione ha due caratteristiche specifiche: la qualità della selezione, e la qualità dell’analisi. Ripetiamo (in carattere corsivo) quanto già abbiamo scritto in un Post precedente sette giorni fa..

Come tutti i nostri lettori sanno, articoli come questi si trovano ovunque, e ognuno se li può leggere da solo.

Fu proprio un nostro lettore, particolarmente critico (ed anche piuttosto limitato nei suoi ragionamenti) a dirci anni fa che “… gli articolo di El Erian me li posso leggere anche io da solo". …”

Su questo, non c’è alcun dubbio.

Ed infatti: ogni volta che noi di Recce’d scegliamo (tra migliaia di contributi che noi riceviamo) di proporre ai lettori un articolo in lettura, la nostra scelta è fatta per una ragione specifica. E quell’articolo che noi selezioniamo rientra, sempre, all’interno di un nostro ragionamento più ampio.

E quindi (come rispondemmo anni fa al nostro lettore) ognuno legge qualsiasi cosa con i propri occhi: le cose che Recce’d legge, e sceglie di riproporre, sono lette con gli occhi del gestore di portafoglio, dell’analista, dell’esperto di mercati finanziari. Che sono occhi (ovviamente) molto diversi dagli occhi dei nostri lettori. La nostra lettura è finalizzata: individuiamo e selezioniamo quei punti che possono essere utili, sia nella teoria sia nella pratica, a tutti nostri lettori.

Con la sola eccezione di quel nostro lettore di anni fa che abbiamo appena citato, lettore che allora evidentemente non lo aveva capito, e crediamo neppure oggi ha compreso la differenza.

Nel caso dei quattro articoli che state per leggere oggi, abbiamo trovato numerosi spunti che possono essere utili per i nostri lettori.


Spiegato il criterio generale che ispira il nostro lavoro di selezione, oggi in questo Post, ci concentriamo sulla stampa in Italia.

La nostra rassegna della stampa italiana parte proprio dal tema trattato sopra in un’immagine: il tema delle tariffe. E subito dopo vi spiegheremo il perché di questa scelta di partire proprio dalle tariffe.

Leggiamo quindi che cosa ha scritto il quotidiano Il Giornale il 6 agosto scorso sul tema tariffe.

C’era un tempo in cui la diplomazia commerciale somigliava a una partita di scacchi. Oggi, con Donald Trump tornato alla Casa Bianca, somiglia più a un rodeo.

L’ultima tornata di dichiarazioni incendiarie del presidente americano rischia di mandare in frantumi ogni illusione residua su una normalizzazione dei rapporti transatlantici. Dazi del 250% sui farmaceutici europei, minaccia di alzare dal 15% al 35% le tariffe da poco concordate se l’Europa non investirà 600 miliardi in breve tempo in attività americane: un ricatto economico in piena regola, con il fragile velo della diplomazia ridotto a coriandoli.

Trump non si smentisce. Alza la posta, cambia le regole, impone la sua narrativa come fosse l’unica possibile e poi fa un’altra giravolta. Ma può l’Europa permettersi il lusso dell’attendismo? Perché se la politica vive anche di tregue tattiche, l’economia industriale e le catene del valore non possono navigare a vista, inseguendo gli umori mutevoli di chi dovrebbe rappresentare un punto fermo nell’Occidente.

Lo abbiamo visto con chiarezza nella recente «pace scozzese», quella che avrebbe dovuto scongiurare la tempesta commerciale tra Europa e Stati Uniti e che invece si è rivelata per quello che era: un compromesso di corto respiro, utile più a salvare la faccia che a garantire una prospettiva. Come avevamo scritto allora, si trattava di una tregua, non della pace.

E i fatti ci stanno dando ragione. A mo’ d’esempio, le esportazioni farmaceutiche europee verso gli Stati Uniti valgono circa 120 miliardi di euro l’anno. Un dazio del 250% vorrebbe dire, nella pratica, dimezzare la competitività del settore, colpendo duramente Paesi come Germania, Belgio, Olanda e anche l’Italia. Il paradosso è evidente.

Da un lato, Trump chiede all’Europa un allineamento sempre più netto anche in campo industriale ed energetico. Dall’altro non esita a colpirne i settori più competitivi con condizioni capestro che ricordano le vecchie logiche coloniali. L’idea che l’Europa possa subire in silenzio tutto questo somiglia tanto a una strategia suicida.

E dunque, invece di congelare il famoso pacchetto di controdazi di 93 miliardi predisposto in vista di scenari simili, perché non cominciare a dispiegarlo? Nato come misura di deterrenza, oggi deve diventare una leva di pressione. Se Trump vuole tornare al protezionismo aggressivo, l’Europa deve essere pronta a dare risposte che incidano in qualche modo. Non per spirito di ritorsione, ma per difendere la propria autonomia strategica. Siamo davanti a una logica del ricatto economico che si fa beffe di ogni regola multilaterale.

E c’è un altro paradosso che grida vendetta: mentre Washington pretende che l’Europa investa 600 miliardi nelle attività industriali americane, il Congresso Usa vota sussidi miliardari a favore della manifattura interna, con clausole che penalizzano proprio le aziende europee.. Perché allora quei 600 miliardi, invece di essere gettati come moneta di fedeltà sul tavolo americano, non vengono dirottati su un ambizioso piano di rilancio tecnologico europeo?

Il gap con Stati Uniti e Cina è oggi più ampio che mai: basti pensare che solo nel 2024 Pechino ha investito quasi 300 miliardi di dollari in Intelligenza Artificiale, cloud e semiconduttori, mentre l’Europa, divisa tra veti incrociati e lentezze regolatorie, resta al palo. Qui entra in gioco anche il nodo della Minimum Global Tax e della Digital Tax. Il progetto di tassazione globale delle multinazionali è fermo, impantanato tra rinvii e pressioni americane. Ma, come ha ricordato Mario Monti, una digital tax europea è ancora possibile, e anzi necessaria.

L’obiezione è nota: colpire le big tech significa rischiare ritorsioni. Ma è davvero credibile che Google, Apple, Meta o Amazon decidano di staccare la spina e abbandonare un mercato - come è quello dell’Europa allargata - di 500 milioni di consumatori?

Sarebbe un autogol clamoroso anche per loro: gli utili realizzati grazie alle attività europee parlano chiaro. E poi: possiamo davvero continuare a concedere extraterritorialità fiscale alle multinazionali americane mentre veniamo minacciati di dazi fuori misura?

Il quadro, insomma, è chiaro.

Trump gioca la carta del protezionismo, consapevole che l’America, per ora, può ancora permetterselo. Ma gli effetti a lungo termine sono già visibili anche in casa sua: aumento dell’inflazione, tensioni sulle supply chain, incertezza per gli investitori, blocco dei programmi aziendali. Anche gli Stati Uniti, presto, pagheranno il prezzo di questa strategia. E non solo in termini economici: anche in termini di credibilità internazionale. La vera domanda, però, è una sola: l’Europa è pronta a cambiare passo? Perché se continuiamo ad agire in ordine sparso, se Bruxelles resta prigioniera delle sue timidezze, se i governi nazionali antepongono gli interessi elettorali a quelli strategici, Trump avrà già vinto.

Non con i dazi, ma con la divisione del fronte europeo. Il tempo delle tregue è finito.

Serve una risposta. Serve una strategia. E serve, finalmente, il coraggio politico di dire no: non a Trump, ma a una visione del mondo in cui l’Europa gioca solo in difesa.


Tutto giusto, tutto vero, tutto scorre.

Oppure no?

L’articolo che avete appena letto è utile, per voi lettori: mette davanti ai vostri occhi le enormi contraddizioni della situazione attuale,. così come vi viene presentata dalla stampa, dai TG, dai GR e sui social. Utile.

Ma mancano alcune cose, molto importanti.

Che cosa manca, in questo utile articolo?

L’articolo chiarisce che il tratto dominante della situazione attuale è il caos. Chiarisce che è lo stesso Trump, a puntare sul generare confusione, apprensione caos. L’articolo, però, non vi aiuta quando si tratta di spiegare la ragione per la quale oggi il Capo Supremo della più grande economia al Mondo punta tutto sul caos.

Che cosa è che vuole, attraverso il caos? Quale è il suo obbiettivo, che lo spinge a creare il caos?

Senza una risposta a queste domande, come pensate di potere investire il vostro risparmio in modo tale da proteggerlo dal caos?

E come pensate di potere ottenere un guadagno, dai vostri investimenti?

Ecco, spiegato nel concreto, lo scopo di lavoro in Recce’d per il Post di oggi, come per altri nostri Post. Quei Post che ripropongono articoli facili da trovare per il nostro lettore, anche senza aiuti da parte di Recce’d.

Noi di Recce’d facciamo qualche cosa di molto utile per voi lettori, lavorando a una selezione ragionata come questa che state per leggere: lo scopo è quello di evidenziare sia contenuti, sia legami fra testi diversi, che ai nostri lettori probabilmente sono sfuggiti (impegnati come sono a svolgere altre attività, altre professioni, e ad inseguire altri obbiettivi).

Andiamo avanti, e spieghiamo ancora in un caso concreto: dopo avere letto questo articolo de Il Giornale, ora noi leggiamo un articolo del Corriere della Sera: articolo che, però, è di ben sei mesi fa. Del febbraio del 2025. Articolo che noi di Recce’d già ripubblicammo allora, in febbraio, in un Post di questo Blog, ma in un contesto diverso.

Oggi, rileggendolo, potremo evidenziare al nostro lettore alcuni collegamenti, che alla maggior parte dei nostri lettori possono essere sfuggiti.

Il termine isolazionismo forse si applicava al Trump Uno, mentre è del tutto inadeguato a descrivere la politica estera del Trump Due: i ribaltamenti repentini nelle alleanze, suggeriscono ad alcuni osservatori l’idea di un G3, consentono a Putin di accarezzare il suo sogno di una Nuova Yalta (spartizione del mondo in aree di influenza), in Cina hanno generato la metafora dei Tre Regni. Addio all’idea di Biden di una crociata del mondo libero contro le autocrazie, all’ordine del giorno c’è un grande compromesso storico. Due autorevoli studiosi di storia e di geopolitica ci aiutano a capire quale logica può ispirare oggi la nuova Dottrina Trump. Il primo sottolinea una forte rottura col passato e la spiega con una teoria del debito; il secondo al contrario sostiene che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e quanto sta facendo Trump ha molti precedenti nella storia Usa (con esiti talvolta brillanti, talvolta meno).

Il primo è lo storico di origine scozzese Nial Ferguson, grande esperto delle vicende degli imperi del passato, oggi docente alla fondazione Hoover presso l’università di Stanford in California. Ferguson riprende, con ricchezza di dati attuali e paragoni storici, la tesi resa celebre da un altro storico britannico, Paul Kennedy: gli imperi muoiono per «overstretching», iper-dilatazione delle spese militari che portano al collasso finanziario. Ma Ferguson propone una sua variante aggiornata. Gli imperi secondo lui muoiono quando il peso del debito pubblico (rimborso degli interessi e del capitale) supera quel che riescono a spendere per difendersi. L’America ha appena varcato questa soglia.Questo fra l’altro mette in una luce nuova il tentativo di Elon Musk (attraverso il suo Dipartimento dell’Efficienza governativa o DOGE) di tagliare dell’8% perfino il bilancio del Pentagono. La Dottrina Trump, puntando a un grande accordo con Russia e Cina, consentirebbe di alleggerire almeno in parte le responsabilità militari degli Stati Uniti. Ecco, qui di seguito, alcuni passaggi dell’analisi di Ferguson, apparsa in una versione sul Wall Street Journal del weekend scorso: 

«Gli economisti hanno a lungo cercato invano una soglia che definisca quanto debito sia troppo. La mia formulazione focalizza l’attenzione sulla cruciale relazione storica tra il servizio del debito (interessi più rimborso del capitale) e la sicurezza nazionale (spese per la difesa, inclusi investimenti in ricerca e sviluppo). La soglia cruciale è il punto in cui il servizio del debito supera la spesa per la difesa, dopo il quale le forze centrifughe dell’onere aggregato del debito tendono a indebolire la presa geopolitica di una grande potenza, rendendola vulnerabile a sfide militari. La cosa sorprendente è che, per la prima volta in quasi un secolo, gli Stati Uniti hanno violato la Legge di Ferguson lo scorso anno. La spesa annua per la difesa—più precisamente, le spese di consumo per la difesa nazionale e gli investimenti lordi—è stata di 1.107 miliardi di dollari nel 2024, secondo il Bureau of Economic Analysis (BEA), mentre la spesa federale per il pagamento degli interessi (il governo ha rinunciato da tempo a rimborsare il capitale) ha raggiunto 1.124 miliardi di dollari. Queste spese possono essere espresse anche come percentuali del prodotto interno lordo. 

L'Ufficio del bilancio del Congresso (CBO), che utilizza una definizione più ristretta di spesa per la difesa rispetto al BEA, la colloca al 2,9% del PIL per lo scorso anno. I pagamenti netti degli interessi (al netto degli interessi ricevuti dalle obbligazioni detenute dalle agenzie governative) ammontavano al 3,1%. Non abbiamo visto nulla di simile dall’era dell’isolazionismo. Tra il 1962 e il 1989, la spesa per la difesa degli Stati Uniti è stata in media del 6,4% del PIL; il servizio del debito era meno di un terzo di tale valore, pari all'1,8%. Anche dopo la fine della Guerra Fredda, il governo federale ha continuato a spendere in media circa il doppio per la sicurezza nazionale rispetto agli interessi sul debito. Il fatto che gli Stati Uniti siano attualmente proiettati a spendere una quota crescente del loro PIL per i pagamenti degli interessi e una quota decrescente per la difesa significa che il potere americano subisce più restrizioni di bilancio di quanto la maggior parte delle persone si renda conto. Entro il 2049, secondo l’ultima proiezione di bilancio a lungo termine del CBO, i pagamenti netti degli interessi sul debito federale saranno saliti al 4,9% del PIL. Se la spesa per la difesa manterrà la sua quota recente della spesa discrezionale, ammonterà alla metà di quella percentuale del PIL. Non vi è inoltre alcuna reale possibilità che la spesa per la difesa aumenti drasticamente. Poiché tale spesa è discrezionale, deve essere stanziata dal Congresso ogni anno, a differenza della spesa per i programmi di Welfare (che è obbligatoria) e dei pagamenti degli interessi (la cui mancata corresponsione equivarrebbe a un default). Anzi, è probabile che i vincoli di bilancio esercitino una pressione al ribasso sulla spesa per la difesa nei decenni a venire».

Lo storico Ferguson conclude con quei paragoni nei quali è un maestro: illustra una serie di parallelismi fra l’America di oggi e gli Asburgo di Spagna, l’impero ottomano, la monarchia borbonica (quella francese), l’Austria-Ungheria, e i meccanismi che portarono alla decadenza di quei regimi.

Un suo collega di studi storici, nonché esponente del pensiero conservatore della «realpolitik» influenzato dal pensiero di Henry Kissinger, è Walter Russell Mead. Anche lui descrive una logica perfettamente razionale dietro ciò che Trump sta facendo in politica estera. Però è una versione assai meno pessimista rispetto a Ferguson. Inoltre Mead elenca gli elementi di continuità fra il Trump Due e altre fasi della politica estera statunitense, ivi compreso sotto presidenti democratici. Ecco questa variante positiva – s’intende positiva per l’America, non per gli europei – della Dottrina Trump secondo Mead.

«La scorsa settimana, mentre Donald Trump ha quasi fatto saltare in aria l’alleanza transatlantica, i soliti allarmisti che hanno lamentato ogni fase dell’ascesa del presidente si sono scatenati, tanto eloquenti quanto inevitabilmente inutili. Anche i sotenitori del mondo MAGA di Trump si sono fatti sentire, esaltando l’audace originalità di un uomo le cui presunte mosse di scacchi in 3D infrangono tutte le regole. Sia i sostenitori che i detrattori omettono che la politica di Trump nei confronti della Russia è, per molti aspetti, nella tradizione. Come Gerhard Schröder e Angela Merkel, il presidente vuole andare oltre le differenze politiche e ideologiche con Mosca per sviluppare legami economici reciprocamente vantaggiosi. Come Barack Obama, crede che l’antagonismo tra Stati Uniti e Russia sia un’eco anacronistica della Guerra Fredda. Come Joe Biden, Trump vuole «parcheggiare» la Russia: evitare il dolore, la difficoltà e i costi di un confronto con Mosca stabilendo una sorta di accordo di lavoro con essa. La sostanza delle proposte di Trump alla Russia—accettare guadagni territoriali offrendo al contempo un’assistenza alla sicurezza inadeguata all’Ucraina—è l’approdo a cui probabilmente anche Biden e i suoi principali alleati europei sarebbero finiti. È così che George W. Bush, Obama, Merkel e Biden hanno trattato le azioni della Russia contro la Georgia nel 2008 e l’attacco del 2014 all’Ucraina. Ma ci sono differenze tra le vecchie e le nuove politiche verso la Russia. Mentre i suoi predecessori usavano una dura retorica anti-russa e sanzioni simboliche per mascherare il loro pragmatismo arrendevole, Trump vuole mandare a Vladimir Putin dolci e fiori. Per Trump, trattare Putin con «rispetto»—come direbbe Tony Soprano—è la strada per una relazione stabile e improntata agli affari con i russi. Se questo approccio non è una soluzione completa al problema della Russia per gli Stati Uniti, non è nemmeno del tutto sbagliato. Se vuoi che qualcuno parcheggi nella tua strada, non gli lanci addosso escrementi di cane. 

C’è di più. Nella visione di Trump, i paesi europei non si sono semplicemente rifiutati di aumentare le spese per la difesa su richiesta degli Stati Uniti. Guidati dalla Germania, hanno colto ogni opportunità per commerciare con la Russia, anche quando questo commercio indeboliva la sicurezza europea e rafforzava Mosca. La vecchia politica americana ha costretto gli Stati Uniti a implorare Berlino di smettere di minare la propria sicurezza facendo affidamento sull’energia russa. Il team Trump vuole ribaltare questa dinamica. Poiché la Russia è più vicina alla Germania e presumibilmente una minaccia maggiore per essa che per gli Stati Uniti, dovrebbe essere la Germania a farsi carico della propria sicurezza, mentre gli Stati Uniti stabiliscono stretti rapporti commerciali con un paese che non li minaccia direttamente. In un mondo ben governato, secondo il team Trump, dovrebbe essere la Germania a supplicare gli Stati Uniti di evitare accordi commerciali con la Russia che minano la sicurezza europea, non il contrario. Il percorso di Trump è dirompente e rischioso, ma internamente coerente. Offrire alla Russia una partnership economica con gli Stati Uniti, abbandonare la campagna ideologica contro di essa e ridurre il ruolo dell’America nella NATO possono essere visti come sforzi per raggiungere l’obiettivo di lungo termine dell’Occidente: neutralizzare la Russia o persino arruolarla contro la minaccia maggiore rappresentata da Pechino. L’approccio Trump riecheggia le idee che l’allora Segretario al Commercio Henry Wallace espose al presidente Harry S. Truman in una lettera datata 23 luglio 1946. Wallace sosteneva che la diffidenza di Joseph Stalin verso l’Occidente derivava da un senso di difesa accumulato in oltre mille anni di invasioni e minacce straniere. Contenere Mosca costruendo alleanze attorno ad essa avrebbe solo approfondito la paranoia di Stalin e aumentato la sua ostilità.

La soluzione, secondo Wallace, era conquistare la fiducia del Cremlino ritirandosi dalle aree contese, accettando le proposte sovietiche per garantire la loro sicurezza, ignorando l’ostilità americana verso il sistema sovietico, offrendo la possibilità di una profonda partnership economica e promuovendo il commercio bilaterale. Il diplomatico George Kennan, architetto della strategia americana di contenimento della Guerra Fredda, riteneva che Wallace sbagliasse. Kennan sosteneva che relazioni stabili e improntate agli affari con Mosca fossero possibili, ma solo dopo che Stalin avesse realizzato che l’Occidente poteva e avrebbe resistito con successo ai suoi tentativi espansionistici. La distensione poteva seguire il contenimento, ma non sostituirlo. Ci sono chiari rischi nella politica di Trump ispirata a Wallace. Gli europei, inclusi alcuni storicamente molto filo-americani, non perdoneranno né dimenticheranno presto le offese del team Trump alla loro dignità e le minacce alla loro sicurezza. Putin potrebbe benissimo accettare tutte le concessioni che Washington gli offre e poi rafforzare sia la sua alleanza con la Cina sia la sua aggressione in Ucraina. Il Giappone vede l’atteggiamento sprezzante di Trump nei confronti degli alleati europei di lunga data come una minaccia alla propria sicurezza. Alla fine, Henry Wallace si pentì della sua ingenuità negli anni ’40. Vedremo come finirà per Donald Trump». 

In questo articolo, dello scorso mese di febbraio 2025, il giornalista Federico Rampini anticipava ai lettori alcune considerazioni, che oggi risultano utilissime per voi lettori: considerazioni che spiegavano, in modo chiaro, il perché il Presidente degli Stati Uniti oggi, nell’agosto 2025, punta con le sue ripetute sparate in merito alla tariffe di generare il massimo del caos possibile nella mente e nella psiche del pubblico, e degli investitori in modo particolare.

Lui, Donald J. Trump, lui punta sul caos, così che la massa degli investitori … si dimentichi di fare i conti.

Ed agisca di impulso.

Ed agisca con reazioni istintive, e basate sull’intuito.

In modo tale da evitare che le scelte della massa degli investitori siano fondate sui fatti. Fondate sui numeri. Fondate su alcuni degli aspetti della realtà che Rampini citava proprio nell’articolo che voi avete appena riletto dopo quattro mesi.

Dal febbraio del 2025 ora ritorniamo all’oggi.

E restando al Corriere della Sera, leggiamo insieme un articolo pubblicato solo pochi giorni fa. Che ci riporta, in modo diretto, al tema sul quale noi di Recce’d lavoriamo ogni minuto di ogni giorno per i nostri Clienti. Ovvero i mercati finanziari, gli investimenti, la gestione del portafoglio titoli e del risparmio.

Precisiamo soltanto che nell’articolo seguente troverete accenni ad una intesa sui dazi tra Unione Europea e Stati Uniti che nella realtà … non è mai esistita, non è mai stato scritta, non è mai stato firmata.

Non esiste, semplicemente: sono soltanto chiacchiere, alle quali tutti i media hanno dato enorme risonanza, ma che in termini concreti hanno un peso pari a zero.

Quanto le tregue in Ucraina. annunciate ogni settimana, ma dopo mezz’ora si legge di razzi, di morti, di combattimenti.

La propaganda di guerra, ma adesso applicati anche a temi non di guerra guerreggiata, ad esempio le tariffe.

Storia di Federico Fubini

Donald Trump si lamenta per una ristrutturazione immobiliare della Federal Reserve da 2,5 miliardi di dollari (nella foto sopra, con il capo della banca centrale Jay Powell). Ma questo tipo di mosse può costarci cento volte di più di 2,5 miliardi di dollari. Dico a noi, noi europei: risparmiatori italiani inclusi. Sarebbe molto peggio di qualunque effetto dazi, malgrado l’accordo di domenica sera fra lo stesso Trump e l’Unione europea. 

Per capire perché vanno fatti alcuni brevi passi indietro su alcuni aspetti: a che punto si trovano gli Stati Uniti sul fronte del debito pubblico; quanto è esposta la zona euro su quel debito; a che scopo Trump stesso vuole sottomettere la Fed; e come tutto questo si inquadra nelle tensioni fra Washington e Bruxelles. Perché fuori dai riflettori, in silenzio, in questi mesi è successo qualcosa che – lo ammetto subito – non mi aspettavo: da gennaio le economie che nelle ultime settimane hanno concluso accordi  con Trump, come quello di domenica sera con Ursula von der Leyen, hanno comprato debito pubblico americano in più per 400 miliardi di dollari. Possibile? Vediamo.

Dall’inizio del secondo mandato, Trump si sta dimostrando profondamente consapevole della grande vulnerabilità americana. Essa riguarda il punto estremo al quale è giunto il ciclo del debito dell’ultimo quarto di secolo.

Il governo federale è passato da conti in attivo alla fine dell’amministrazione di Bill Clinton (2001), a un deficit sempre più profondo prodotto ad ogni svolta della storia di questi tre decenni (grafico sopra): la recessione con lo scoppio della bolla di Internet e l’11 settembre, i tagli alle tasse ai ricchi di George W. Bush, il costo delle guerre in Iraq e Afghanistan, la seguente recessione per il crash di Lehman e i costi della crisi bancaria, i tagli alle tasse alle imprese del primo Trump e le spese della recessione da Covid, infine le politiche industriali di Joe Biden e i nuovi tagli alle tasse in gran parte ai ricchi del secondo Trump. 

Ogni situazione straordinaria genera vasti deficit, dopo però il risanamento è sempre parziale, incompiuto, e non si torna mai alla situazione di prima. Ogni volta è sempre un po’ peggio. Ogni ciclo politico o economico diventa un passo in più nel degrado del bilancio. Semplicemente – sotto i repubblicani o i democratici – nella società e nel sistema politico americano oggi non esiste un accordo possibile per andare in direzione opposta. Sui conti pubblici si scaricano tutte le tensioni, tutte le contraddizioni del Paese, come nell’Italia degli anni ’70 e ’80.  

Fino a che anche gli Stati Uniti sono giunti a un punto estremo. Quasi due terzi di tutto il debito pubblico esistente oggi al mondo, in valore, è debito pubblico americano (37 mila miliardi di dollari su 59 mila miliardi). Metà dei titoli emessi per coprire nuovo deficit nel mondo nel 2025 saranno titoli del Tesoro americano. Ma poiché appunto negli Stati Uniti non c’è consenso possibile per risanare i conti, l’amministrazione Trump si pone una domanda diversa: come evitare una crisi di debito senza chiedere sacrifici agli elettori, ai gruppi d’interesse, ai grandi finanziatori dei repubblicani? 

Di qui l’idea di usare i dazi come un’imposta indiretta sugli stranieri (ma in realtà sui consumatori americani). Di qui anche l’idea di diffondere gli stablecoin, perché gli emittenti sono tenuti a investire le loro riserve in titoli di debito americano.

Ma sono tutti stratagemmi parziali, per un Paese ormai così avanti nel suo ciclo di degrado fiscale. Come mostra l’ultimo rapporto dell’Ocse sul debito pubblico nel mondo, gli Stati Uniti hanno di gran lunga la maggiore necessità di rifinanziamento – in proporzione all’economia nazionale – fra le 38 democrazie avanzate del club: l’anno scorso hanno dovuto trovare creditori di loro carta sovrana di nuova emissione per quasi un terzo del loro prodotto lordo (Pil). E il dato non calerà, al contrario (grafico sotto).

Dopo Israele (che era in guerra) nel 2024 gli Stati Uniti hanno anche il deficit pubblico più alto in proporzione al Pil fra i trentotto Paesi dell’Ocse, malgrado la crescita rapida e la piena occupazione (grafico sotto). Anche qui Trump non potrà che continuare come e più di prima, visti gli oltre tremila miliardi di nuovo debito nel prossimo decennio promessi dal «Big beautiful bill» appena approvato.  

Inevitabile poi che questo si rifletta sul debito pubblico, da allora diminuito molto in Grecia e Portogallo, calato anche in Spagna, mentre in Italia è salito ancora e in Francia è francamente esploso (il grafico sotto, elaborazione sulla stessa fonte, rappresenta la variazione percentuale dal 2015 del livello del debito/Pil).

E non sarà semplice trovare sempre investitori in nuovi titoli del Tesoro americano, per una ragione specifica: allo scopo di tenere sotto controllo il costo degli interessi, che sta salendo verso quota mille miliardi di dollari, negli ultimi anni le amministrazioni hanno emesso e venduto sempre più titoli di debito a breve e a brevissimo termine (i cosiddetti “bills”).

Vi ricordiamo che l’America ha la quota di debito pubblico a breve e brevissimo termine più alta dell’Ocse e quella salita di più negli ultimi cinque anni. In questo la superpotenza è in una situazione un po’ da Paese emergente, che non riesce più a finanziarsi con un piano di lungo respiro. Così va in affanno. Il Tesoro di Washington è costretto a tornare sempre più spesso sul mercato chiedendo quantità immense di denaro agli investitori.

Non fosse l’America – con il dollaro, la supremazia tecnologica e quella militare – un Paese del genere sarebbe già saltato.

Neanche per l’America però navigare in acque simili sarà banale o privo di rischi. Di qui l’attacco di Trump a Jay Powell e alla Fed, condotto in un tipico stile da autocrate di un Paese in via di sviluppo. La contestazione dei presunti costi eccessivi del restauro della banca centrale naturalmente è un pretesto per mettere Powell sotto pressione, idealmente per indurlo a dimettersi o almeno spingerlo a concludere qualche tregua con la Casa Bianca che sappia di resa.

È sempre più chiaro che Trump pensa di risolvere il problema americano sopprimendo l’indipendenza della Fed, quantomeno con la nomina di un fedelissimo al suo timone. Al più tardi, questi entrerebbe in carica alla scadenza da maggio 2026. 

Una banca centrale sotto il controllo del potere politico può abbassare i tassi – come chiede il tycoon – anche se la piena occupazione e l’inflazione sospinta dai dazi lo sconsigliano. Ciò ridurrebbe (nell’immediato, almeno) il costo in interessi degli oltre diecimila miliardi di dollari di carta sovrana che il Tesoro americano deve vendere ogni anno. Ciò alimenterebbe anche nuova inflazione negli Stati Uniti, riducendo il valore reale del debito esistente. 

Ray Dalio, il mitico fondatore dello hedge fund Bridgewater, definisce uno scenario simile un default non dichiarato

Il Tesoro rimborserà ai creditori la somma promessa come quantità di dollari, ma quei dollari avranno un potere d’acquisto eroso dall’inflazione; gli stessi interessi sui titoli emessi peseranno meno, se l’inflazione nell’economia gonfia le entrate fiscali del governo. Alla peggio la Fed – su ordine di Trump – potrà persino comprare direttamente titoli di Stato.

Per noi italiani sarebbe un ritorno agli anni ’70, per gli americani al decennio 1941-1951 quando la Fed garantiva il debito pubblico durante la Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea.

Non dico che finirà bene: l’inflazione può andare fuori controllo come in Italia mezzo secolo fa o più di recente come nella Turchia dell’autocrate Recep Tayyip Erdogan; eppure questo ha tutta l’aria di essere il piano di Trump.

Ma noi europei che c’entriamo? C’entriamo, perché in questi ultimi anni abbiamo superato Cina e Giappone ed oggi siamo i principali creditori del governo degli Stati Uniti nel mondo.

E non di poco. Solo in Belgio e Lussemburgo si trovano oggi crediti verso gli Stati Uniti per 827 miliardi di dollari, superiori a quelli della Cina. Se si aggiungono Francia (375 miliardi), Irlanda (327) e Germania (102), gli investimenti dall’area euro in debito americano sono una volta e mezzo quelli del Giappone e oltre il doppio di quelli di Pechino. È una stima senz’altro per difetto: molti risparmiatori dell’area euro investono attraverso la Svizzera (303 miliardi) o la Gran Bretagna (756). In sostanza l’area euro – banche centrali, istituzioni finanziarie private, singoli risparmiatori da soli o tramite i fondi – dev’essere esposta sul debito dell’amministrazione Trump fino a duemila miliardi di dollari (su novemila di debito estero).

Non solo. Da gennaio, da quando Trump è entrato in carica e il dollaro ha perso circa il 13% sull’euro, i principali creditori esteri degli Stati Uniti in gran parte non si sono affatto sfilati; al contrario, i dati del Tesoro Usa dicono che a sorpresa hanno comprato ancora più carta emessa dal governo di Donald Trump, nel complesso per circa 400 miliardi di dollari supplementari. Chi lo ha fatto? Non la Cina, che continua la sua lenta, silente ma decisa riduzione del rischio di investimento in titoli americani. Lo hanno fatto soprattutto investitori da Giappone (più 73 miliardi di dollari), Canada (più 80), Francia (più 40) e Belgio (più 37). Coincidono in parte con le economie che hanno cercato in modo più mansueto un accordo commerciale con Trump.

Non chiedetemi perché, non ho idea. So solo che chi ha comprato ha già perso parecchio, a causa della svalutazione del dollaro. So anche che l’assalto di Trump alla Fed, l’eventuale distruzione della sua indipendenza, non potrà che alimentare nuova svalutazione del dollaro; se il biglietto verde calasse di un altro 10% – ipotesi plausibile, con una banca centrale americana sottomessa – il valore in euro degli investimenti europei in debito americano crollerebbe di valori fino a duecento miliardi. Il primo a pagare rischia di essere Trump, naturalmente, perché anche gli investitori esteri nelle società quotate in America potrebbero innescare nuovi crolli di Wall Street se decidono che restare esposti sul dollaro non è più tanto sicuro.

Non dico che il piano del presidente americano abbia senso. Dico solo che esso sembra proprio profilarsi. E l’assalto alla Fed è un assalto anche a noi europei, che può fare più male dei dazi.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente nella newsletter del Corriere della Sera «Whatever it takes», a cura di Federico Fubini.

Tutto chiarito? No: non tutto, e mancano alcuni aspetti rilevanti di questa vicenda (li ritrovate elencati e spiegati, leggendo i precedenti Post di Detox): ma il punto centrale è ben individuato, ed illustrato, da Federico Fubini qui sopra.

Al lettori, poi, non rimane che tradurre questa utile analisi in scelte di investimento.

Oppure, contattare Recce’d alla pagina CONTATTI.

Come conclusione di questo Post, noi di recce’d oggi abbiamo scelto di affidare ad un articolo del quotidiano La Repubblica l’analisi delle possibili conseguenze della scelta, fatta da Trump, di puntare tutto sul caos, sulle contraddizioni, sulla confusione, sul generare anzia, sul distrarre l’attenzione.

Il grado di approfondimento di questo articolo che chiude il Post vi chiediamo di metterlo al confronto con i Post della serie Detox che trovate pubblicati in questo Blog.

E successivamente, affidiamo alla vostra valutazione di esperti investitori quale dei due approfondimenti, nel vostro interesse, risolve il maggior numero di dubbi e risponde al maggior numero di domande.

Quale fonte seguire in modo regolare. Ed anche, a chi chiedere un parere, un suggerimento, un confronto.

Nel vostro esclusivo interesse. Vostro, e del vostri risparmio che è investitor sui mercati finanziari (dai BTp, a Wall Street, e poi fino ai Paesi Emergenti).

Dal fango piovuto sul presidente della Fed Powell al licenziamento della responsabile dell’ufficio statistica del dipartimento Lavoro, le parole della Casa Bianca allarmano gli analisti di tutto il mondo

06 Agosto 2025 alle 15:00 2 minuti di lettura

ROMA – Il punto è uno: la fiducia. E lui, Donald Trump, sta facendo di tutto per sgretolare quella che gli investitori hanno avuto sull’attendibilità degli indicatori economici americani. Nella tempesta dei dazi che sta agitando cancellerie e mercati di tutto il mondo, il rischio che quei dati diventino carta straccia preoccupa (e non poco) gli economisti a ogni latitudine. Almeno secondo l’allarme lanciato dal Financial Times.

A far scattare la sirena degli analisti è stato l’ultimo colpo assestato dalla Casa Bianca: il licenziamento di Erika McEntarfer, commissaria del Bureau of labor statistics, l’ufficio statistico del dipartimento Lavoro. Una decisione a bruciapelo, arrivata poche ore dopo che il rapporto sull'occupazione di luglio aveva scattato un’istantanea sulle assunzioni quasi ferme quest'estate. Con una forte revisione al ribasso della crescita dell'occupazione a maggio e giugno.

Dal megafono della Cnbc, il commander-in-chief ha urlato ai quattro venti che quei numeri erano "completamente manipolati" e che l'agenzia era diventata "altamente politicizzata". Senza fornire uno straccio di prova. Stando agli economisti interpellati dal quotidiano della City, una mossa come questa – senza precedenti – è come una mina alla base della fiducia degli investitori in un'istituzione che compila rapporti sul lavoro e sull'inflazione. Una bussola per la valutazione di migliaia di miliardi di dollari di attività.

"La fiducia nelle istituzioni è il motivo per cui gli Stati Uniti sono stati una destinazione per gli investimenti stranieri. Una di queste istituzioni è l'agenzia statistica del Paese", dice all’Ft Michael Feroli, capo-economista statunitense di JPMorgan.

La banca di Wall Street spiega ai propri clienti che mettere alla porta di McEntarfer “presenta rischi per la conduzione della politica monetaria, per la stabilità finanziaria e per le prospettive economiche".

Gli investitori sono sempre più preoccupati per la capacità delle istituzioni statunitensi di resistere alle continue pressioni dell'amministrazione Trump. Lo sa bene il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, arrivato nella plancia di comando della banca centrale americana su iniziativa dello stesso Trump tra 2017 e 2018. La loro luna di miele è finita quando "Jay” Powell è rimasto in sella con l’arrivo del democratico Joe Biden nello Studio Ovale. E la crisi si è incancrenita. Fino alla montagna di fango piovuta addosso al capo della Fed da quando il tycoon è tornato a Washington e ha sposato la dottrina dei dazi cara al mondo Maga.

‘Jay’ Powell è nel mirino della Casa Bianca per un motivo: non vuole assecondare le richieste di Trump, che pretende il taglio dei tassi di interesse. Il banchiere centrale non si schioda dalla sua posizione, perché – è la sua tesi – proprio i dazi imposti dall’amministrazione creano un clima di incertezza e sono il potenziale innesco di una nuova spirale di inflazione. "Il mandato della Fed è la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Sarebbe difficile sapere se siamo sulla strada giusta senza i dati migliori", chiarisce ancora Feroli. Nel frattempo, gli asset rifugio che offrono un'alternativa agli Stati Uniti registrano un aumento, con i prezzi dell'oro che poche ore fa hanno vissuto la giornata migliore degli ultimi due mesi.

Torniamo al caso McEntarfer. Per il capo-economista della banca olandese Ing, Marieke Blom, l'ultima querelle è "l'ennesimo modo per erodere gradualmente la forza istituzionale degli Stati Uniti". "C'è il rischio che questo abbia un impatto sulle statistiche, quindi come dovremo interpretarle d'ora in poi? Riconquistare la fiducia – ragiona – sarà più difficile che perderla". Ralph Schlosstein, presidente emerito di Evercore, banca d'investimento con base a New York, ritiene che "l'accuratezza e l'integrità dei dati economici statunitensi sono fondamentali per garantire che la politica monetaria e fiscale risponda in modo adeguato a ciò che sta realmente accadendo nell'economia reale". E dunque: "Qualsiasi tentativo di politicizzare tali dati indebolirà la fiducia sia nelle statistiche economiche riportate sia nella politica monetaria e fiscale degli Stati Uniti".

Un ex funzionario del Tesoro come Amar Reganti, oggi stratega obbligazionario per Hartford Funds, sostiene che il licenziamento McEntarfer sia un "rischio strutturale a lungo termine per il mercato mobiliare statunitense". A suo giudizio, questo vale sia per i titoli protetti dall'inflazione, che sono legati all'indice dei prezzi al consumo forniti dagli uffici di McEntarfer, sia per il più ampio mercato dei titoli del Tesoro da 29mila miliardi di dollari. Che secondo Reganti dipende dalla "trasparenza e dalla qualità dei dati statunitensi".

Insomma, gli economisti interpellati dal quotidiano finanziario britannico credono che ci sia una miscela esplosiva intorno ai mercati Usa. Pronta a innescare un botto

Valter Buffo
Detox. 1 agosto di caos: che cosa è successo, perché è successo, che cosa succede lunedì.



Ve lo ricordate questo grafico?

Risale a più di un mese fa, e più di un mese fa Recce’d lo utilizzò per aprire un proprio Post, qui nel Blog. Lo recuperate facilmente, scorrendo il Blog verso il basso.

Per quale ragione risulta utile ancora oggi, a più di un mese di distanza?

Semplicissimo da spiegare: perché … nel frattempo, non è successo NULLA.

Ieri sera l’indice più importante del Mondo ha chiuso proprio a questo livello.

Che cosa c’è di utile, per il nostro lettore, in questa osservazione?

Semplicissimo: il nostro lettore deve, semplicemente, fare nella propria mente il calcolo, del numero di occasioni in cui ha letto oppure sentito parlare del “rally delle Borse” e dei “nuovi massimi”, nelle ultime settimane. Da Milano Finanza, dal Sole 24 Ore, dal Corriere della Sera, da La Repubblica, dai GR e dai TG, dal quotidiano della propria città, da CNBC in TV, dai social, dagli amici del caffé, dalle chat.

L’investitore che riuscirà a spiegarsi le ragioni che stanno alla base di questo baccano social, di questo clamore mediatico, a fronte del NULLA più assoluto, avrà fatto un grande passo avanti nella propria consapevolezza, e potrà effettuare le proprie scelte di investimento sui mercati finanziari con maggiore lucidità e con maggiore successo in futuro.

Insomma, amici lettori: se non lo avete ancora fatto, è veramente arrivata l’ora di svegliarsi.


Questo nostro Post avrebbe dovuto (fino a 24 ore fa) essere dedicato alle Borse: un approfondimento dettagliato ed una analisi di elevata qualità, da regalare a tutti i lettori, come è il caso di fare quando il mercato manda forti segnali e ci indica opportunità che nessun investitore dovrebbe trascurare.

Che cosa è cambiato, in sole 24 ore?

Praticamente, tutto.

Ed è proprio per questo, che abbiamo messo da parte la bozza del Post dedicato alle Borse. Ed abbiamo invece deciso di dedicare il nuovo Post ad una semplice, ma al tempo stesso indispensabile, operazione di “rimessa in ordine”. I fatti delle ultime 24 ore sono altamente significativi, e ci regalano numerose, concrete informazioni ed in più di una direzione.

Il nostro lettore, che è anche un investitore, necessita sempre, ma ancora di più in momenti come questi, di un contributo che sia professionale: non è sufficiente “dare un’occhiata veloce”, e non basta una “capacità di intuito”, per quanto sia sviluppata, e non basta il “ho sentito dire che”.

Occorrono metodo, professione, esperienza, ed un vasto spettro di informazioni già selezionate.

Ed eccoci qui, puntuali come sempre: e pronti, come sempre, a regalare a tutti i lettori un supporto che non è solo tempestivo, non è solo concreto, ma è pure di altra qualità, come i nostri lettori sanno. Decisamente al di sopra degli standard dell’industria, alle consuetudini dei “venditori pagati con le retrocessioni sui Fondi e sulle polizze”, e di molto più utile delle pubblicazioni pubblicitarie prodotte dalle varie JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, e compagnia cantante.

Entriamo dunque nel merito, e vediamo che cosa è successo tra la mattina di venerdì 1 agosto e la mattina di sabato 2 agosto 2025.

All'inizio di agosto, tutto sembrava andare per il verso giusto per il mercato azionario statunitense.

  • Le azioni, in particolare gli indici a grande capitalizzazione come l'S&P 500 e il Nasdaq Composite, si erano attestate vicino ai massimi storici.

  • Gli utili aziendali sembravano essere cresciuti a un ritmo sostenuto nel secondo trimestre, nonostante una manciata di dati deboli che avevano suscitato una rapida critica da parte del mercato.

  • I dati ufficiali sui prezzi al consumo sembravano suggerire che, finora, l'impatto dei dazi del presidente Trump sull'inflazione fosse stato più modesto del previsto.

  • Sebbene il ritmo della crescita economica avesse rallentato durante la prima metà dell'anno, l'economia e il mercato del lavoro statunitense si mantenevano in buona salute.

  • Almeno, questo è quanto ha suggerito il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, durante la sua conferenza stampa post-riunione di mercoledì, dopo che la banca centrale aveva deciso di mantenere i tassi di interesse invariati, nonostante due voti contrari di alto profilo.

Quel senso di calma è andato in frantumi venerdì 1 agosto.

Quando il rapporto sull'occupazione di luglio ha mostrato che l'economia statunitense ha creato solo 73.000 posti di lavoro il mese scorso. Ancora più allarmante è stato il fatto che i dati dei due mesi precedenti siano stati nettamente rivisti al ribasso, suggerendo che la visione degli investitori sul mercato del lavoro all'inizio dell'anno fosse stata in gran parte un miraggio.

I dati hanno aumentato la pressione sui titoli azionari, già in difficoltà a causa dell'ultimo round di annunci di dazi da parte dell'amministrazione Trump giovedì sera. Anche le deludenti previsioni sugli utili di Amazon.com Inc. hanno pesato sui futures degli indici durante la notte.

Al suono della campanella di chiusura, il Dow Jones Industrial Average aveva consolidato la sua peggiore performance settimanale da aprile, con l'indice blue-chip in calo per la quinta sessione consecutiva venerdì. Il Nasdaq Composite è sceso del 2,2%, interrompendo una serie di 70 giorni senza cali del 2% o più.

Ma la vera azione si è verificata sui mercati obbligazionari e valutari. Il rendimento dei titoli del Tesoro a 2 anni è sceso di ben 25 punti base, attestandosi al 3,702%, in base ai livelli delle 15:30 (fuso orario orientale). Si è trattato del calo giornaliero più significativo dal 2 agosto 2024. In un solo giorno, il rendimento di questi titoli a breve termine aveva azzerato tutti i guadagni di luglio.

I rendimenti obbligazionari si muovono in modo inverso rispetto ai prezzi.

Un rally di sollievo del dollaro statunitense è stato fermato di colpo. L'indice ICE U.S. Dollar ha perso quasi l'1% venerdì, un'importante mossa per la valuta più liquida al mondo.

Gli strateghi di ING hanno ipotizzato che il dollaro potesse aver raggiunto il picco dopo il suo miglior risultato mensile dal 2022. La valuta statunitense ha faticato molto nel 2025. Alla fine di giugno, aveva registrato il suo peggior risultato nel primo semestre almeno dall'inizio degli anni '70.

Con il calo delle azioni, gli strateghi hanno cercato di contestualizzare il movimento. Il trend rialzista tecnico dell'S&P 500 è rimasto intatto, ha affermato Keith Lerner, responsabile della strategia di mercato di Truist Advisory Services, in un commento condiviso con MarketWatch. Dopo un'impennata del 28% dai minimi di aprile, il mercato era probabilmente in ritardo per un consolidamento. In altre parole, gli investitori non avevano motivo di farsi prendere dal panico.

Ma per Richard Farr, responsabile della strategia di mercato di Pivotus Partners, il calo dei rendimenti obbligazionari e il continuo deterioramento dei dati economici hanno evidenziato quella che ha descritto come una crescente discrepanza tra le elevate valutazioni delle azioni e la realtà dei fatti.

L'analisi tecnica è utile per valutare un trend, ha affermato. Ma non per individuare potenziali punti di svolta quando gli investitori devono improvvisamente confrontarsi con la realtà.

"Le azioni stanno scontando una significativa crescita degli utili e una significativa crescita economica, ma allo stesso tempo i dati macroeconomici stanno peggiorando e la Fed non sta facendo nulla al riguardo", ha dichiarato a MarketWatch venerdì.

Supponendo che seguiranno dati più deboli, gli investitori potrebbero trovare difficile conciliare queste prospettive sempre più pessimistiche con le elevate valutazioni azionarie. Il rapporto prezzo/utili corretto per il ciclo economico dell'S&P 500, meglio noto come CAPE ratio, aveva superato quota 38 a fine luglio, il livello più alto dal 2021.

E il rally obbligazionario potrebbe essere appena iniziato, ha affermato Farr. A suo avviso, il rendimento dei titoli del Tesoro a 10 anni potrebbe scendere al 3,5%, rispetto al 4,218% di venerdì. Qualunque cosa accada, gli investitori dovrebbero tenere d'occhio il mercato obbligazionario per individuare indizi sulla futura direzione delle azioni.

"Questo è il primo dato ufficiale che conferma un significativo indebolimento del mercato del lavoro e, di conseguenza, dell'economia statunitense", ha affermato Farr. "Se così fosse, le solide prospettive sugli utili azionari devono essere ricalibrate".

A complicare ulteriormente le prospettive per le azioni è il fatto che agosto e settembre segnano quello che storicamente è stato il peggior bimestre per le azioni dell'intero anno solare.

Gli investitori che sperano che il mercato ignori questi dati e salga dovranno riporre le loro speranze nell'intervento della Fed per ridurre aggressivamente i costi di finanziamento a settembre.

Ross Mayfield, stratega degli investimenti di Baird, ha affermato che la banca centrale potrebbe giustificare un ulteriore taglio di 50 punti base a settembre, proprio come aveva fatto nella riunione di settembre dell'anno scorso. All'epoca, gli investitori avevano accusato la Fed di essere rimasta indietro. Alcuni avevano addirittura sostenuto che la Fed avrebbe effettuato un raro taglio dei tassi tra una riunione e l'altra.

Una rapida inversione di tendenza nei dati ha infine contribuito a giustificare la decisione di Powell di aspettare. Ma Mayfield ha affermato che sarebbe sorpreso se i dati fossero stati altrettanto indulgenti questa volta, dato che la politica restrittiva della Fed ha avuto un altro anno per influenzare l'economia.

"Sembra quasi che si stia verificando di nuovo", ha detto Mayfield a MarketWatch. "Anche se ho la sensazione che l'economia di fondo sia leggermente più debole ora perché abbiamo avuto un altro anno di tassi di interesse elevati, a cui si sono aggiunti questi dazi."


Come tutti i nostri lettori sanno, articoli riassuntivi come questo si trovano ovunque, e ognuno se li può leggere da solo.

Fu proprio un nostro lettore, particolarmente critico (ed anche piuttosto limitato nei suoi ragionamenti) a dirci anni fa che “… gli articolo di El Erian me li posso leggere anche io da solo". …”

Su questo, non c’è alcun dubbio.

Ed infatti: ogni volta che noi di Recce’d scegliamo (tra migliaia di contributi che noi riceviamo) di proporre ai lettori un articolo in lettura, la nostra scelta è fatta per una ragione specifica. E quell’articolo che noi selezioniamo rientra, sempre, all’interno di un nostro ragionamento più ampio.

E quindi (come rispondemmo anni fa al nostro lettore) ognuno legge qualsiasi cosa con i propri occhi: le cose che Recce’d legge, e sceglie di riproporre, sono lette con gli occhi del gestore di portafoglio, dell’analista, dell’esperto di mercati finanziari. Che sono occhi (ovviamente) molto diversi dagli occhi dei nostri lettori. La nostra lettura è finalizzata: individuiamo e selezioniamo quei punti che possono essere utili, sia nella teoria sia nella pratica, a tutti nostri lettori.

Con la sola eccezione di quel nostro lettore di anni fa che abbiamo appena citato, lettore che allora evidentemente non lo aveva capito, e crediamo neppure oggi ha compreso la differenza.

Nel caso dell’articolo che avete appena letto qui sopra, abbiamo trovato numerosi spunti che possono essere utili per i nostri lettori.

Facciamo subito un esempio: la ricostruzione che avete appena letto indica al lettore la causa principale della la caduta delle Borse: i dati sempre di ieri, venerdì 1 agosto, per gli occupati USA. dati che vi raccontiamo con le immagini che seguono.

Occupati in calo e calo delle Borse, questa è l’interpretazione dell’articolo di apertura.

Questa interpretazione è giusta? E’ degna di attenzione? E’ notevole?

Se vivete in Europa, ed in particolare in Italia, è notevole. Per quale ragione?

Se vivete in Italia, e vi informate sui quotidiani italiani, la storia che a voi viene raccontata è completamente diversa.

Come se i media negli USA ed in Italia ci parlassero di due Mondi paralleli.

Tariffe. Tutti i titoli sulle tariffe. Ma la parola “tariffe”, nella ricostruzione che Recce’d ha riprodotto più in alto e che avete letto,, non compariva mai.

Voi, amici lettori, come vi spiegate questa cosa?

Siete costretti a darvi una risposta: in quanto investitori, siete costretti a scegliere, a decidere. Il calo delle Borse di ieri è spiegato dalle tariffe? Oppure dai dati per gli occupati?

Le tariffe contano? Le Borse “festeggiano” le tariffe, come scriveva solo lunedì scorso il quotidiano Il Giornale (e come è scritto nell’immagine più in alto, sempre di lunedì scorso, ovvero solo cinque giorni fa)?

Oppure, le tariffe non contano nulla, e sono soltanto una distrazione, una perdita di tempo, mentre le economie rallentano, come sembra di leggere nell’articolo riassuntivo qui sopra?

E voi, amici lettori: come potete mai decidere, sui vostri BTp, sulle Borse, sui dollari USA, sull’oro, se neppure avete capito questo? Se neppure avete una risposta?

Passiamo ora ad una seconda osservazione, a proposito dell’articolo che avete letto più in alto. Riguarda quello che NON c’è, nell’articolo.

Si tratta, forse, di un fatto del tutto estraneo alla Borsa, e che NON ne influenza i movimenti?

Decidete voi lettori.

C’è ragione per tremare, leggendo le frasi che avete appena letto nelle immagini.

Ma il rischio nucleare non è la sola cosa omessa, dall’articolo riassuntivo della seduta di ieri.

Tra le informazioni che, sempre ieri, tutti gli investitori hanno dovuto considerare, analizzare e processare, ce ne sono due in particolare che a noi fanno pensare ai calcinacci. Due segnali forti e pesanti, pesanti proprio come i calcinacci che Recce’d richiamava nel più recente Post del nostro Blog, quello precedente a questo. Quei pesanti calcinacci che cadono dal soffitto, quando le fondamenta dell’intero edificio tremano.

Anche questi calcinacci, anche questi tremori, anche questa manifesta debolezza delle fondamenta, pesano sui prezzi degli asset finanziari.

In alcuni momenti, hanno un peso determinante.

Nell’articolo non venivano citati. Recce’d invece ve li fa vedere. Voi riflettete.

Trump è ritornato, anche ieri 1 agosto, all’attacco della Federal Reserve, e del suo Chairman Powell. Trump chiede disperatamente, e da mesi, tassi ufficiali di interesse più bassi.

Trump è la medesima persona che, ogni giorno., in modo insistente, afferma a lettere maiuscole che l’economia degli Stati Uniti va bene, anzi meglio, anzi meglio di sempre. Ma al tempo stesso grida come un ossesso che sono indispensabili i tagli dei tassi. I mercati, tutti i mercati, sono sia disorientati, sia confusi, sia preoccupati.

Ma questi disperati appelli per il taglio dei tassi non sono una novità di ieri. mentre è una novità di ieri questa seconda cosa.

Trump licenzia a poche ore dalla pubblicazione dei dati per gli occupati ed i salari (NFP, non-farm payrolls) il Capo della struttura che raccoglie ed ordina proprio quei medesimi dati.

Immediatamente, come leggete qui sopra nell’immagine, si alimentano i dubbi sulla attendibilità delle statistiche ufficiali, sia prima di Trump, sia oggi con Trump.

Il mercato ancora di più, è confuso, è disorientato, ed è (giustamente) preoccupato. E’ un altro punti di riferimento che si indebolisce, un altro ancoraggio che non tiene più legati i mercati alla realtà. I prossimi dati, inclusi quelli della settimana prossima, verranno letti con sospetto? C’è sfiducia verso tutto e tutti?

Ritorniamo a questo punto al riassunto della caotica (è dire poco) seduta di venerdì 1 agosto che avete letto più in alto.

Inizialmente, ad una lettura veloce, in quell’articolo sembrava che tutto filasse via senza intoppi, e che tutto fosse (finalmente) chiarito. Poi, noi vi abbiamo dimostrato che non è così.

Nuovamente noi di Recce’d vi suggeriamo di NON prendere mai articoli come questi alla lettera: dovete invece, nel vostro esclusivo interesse, fare uno sforzo di analisi, isolare i vari argomenti toccati, e chiedervi se ciò che state leggendo ha un senso. Una lettura veloce, di un articolo come quello scelto per voi, può farvi pensare che “tutto ha una logica e tutto scorre”. Invece, non scorre, e la logica non c’è.

Esattamente come, in apertura di questo Post, abbiamo dimostrato al lettore: nel luglio del 2025 si scrive e si parla di “rally di Borsa”, ma chi nel novembre del 2024 ha investito 100 lire nella Borsa di New York oggi 2 agosto 2025 si ritrova con le stesse 100 lire.

Nessuno, negli ultimi 9 mesi, ha investito denaro sulla Borsa di New York. Neppure un centesimo: quello che è entrato, è anche uscito.

Voi, amici lettori, lo sapevate?

Se non lo sapete, neppure oggi, allora cambiate interlocutori, e contattate subito Recce’d: nel vostro esclusivo interesse.

Ritorniamo però all’articolo riassuntivo che apre il nostro Post di oggi: articolo da non prendere alla lettera, come abbiamo appena detto.

Uniamo quella lettura ad una seconda lettura, e dopo questa seconda lettura Recce’d vi proporrà alcune conclusioni.

Nel secondo contributo di oggi, si fa un tentativo di analisi. Rispetto alla semplice ricapitolazione del precedente articolo, in questo articolo si sale di livello, ed aumenta la qualità.

Ma non è detto, però, che si vada nella giusta direzione. E’ il metodo, di questo contributo, che ci interessa: ed è proprio il riconoscere il metodo, che per voi può risultare utile.

Le conclusioni sono di Michael Hartnett, lo strategista di Bank of America, e noi in Recce’d NON le condividiamo. Ripetiamo per chiarezza: nei nostri portafogli modello, le posizioni NON sono quelle indicate da Hartnett.

A Recce’d, le considerazioni di Hartnett sulle Ferrovie in Borsa portano a conclusioni opposte. Sul dollaro USA, noi stiamo per muovere i portafogli nella direzione opposta. E soprattutto sui titoli di Stato, abbiamo una visione di breve, medio e lungo tempo decisamente diversa.

Ma il metodo, l’ordine degli argomenti, gli strumenti utilizzati, e la chiarezza delle idee, questi sono fattori indispensabili per il successo negli investimenti. Poi, ovviamente, ognuno trae le sue conclusioni.

Delle nostre, riparliamo più in basso, dopo che avrete letto le idee di Hartnett.

Questa analisi mette in evidenza tre possibili “pain-trade” del 2025: tre segmenti del mercato finanziario internazionale in cui gli investitori potrebbero vedere i prezzi muoversi in direzioni inaspettate.

Nel 1881, i titoli azionari delle ferrovie statunitensi, che rappresentavano la tecnologia rivoluzionaria dell'epoca, rappresentavano il 63% della capitalizzazione del mercato azionario statunitense. Perché allora i Magnifici Sette, che attualmente rappresentano il 35% dell'indice S&P 500, non riescono a raggiungere lo stesso livello? È la domanda che si pone Michael Hartnett, stratega globale di Bank of America, nella sua nota settimanale al Flow Show.

Le ferrovie raggiunsero il picco del 63% della capitalizzazione del mercato azionario statunitense nel 1881. Oggi non raggiunge lo 1%.

Sottolinea che altri mercati rialzisti hanno assistito a concentrazioni di posizionamento altrettanto esagerate, come il Nifty Fifty nell'S&P 500, nel 1972, il Giappone che raggiunse il 45% dell'MSCI ACWI nel 1989 e l'enorme peso del settore tecnologico nel 2000. Il gruppo di titoli tecnologici a mega-capitalizzazione noto come i Magnifici Sette – o più recentemente i sei escludendo Tesla, che si è in qualche modo disaccoppiato – cattura lo zeitgeist attorno all'intelligenza artificiale, e Hartnett non trova argomenti convincenti per cui questa tendenza non possa continuare.

Il rapporto di Hartnett individua anche altre due situazioni importanti in cui posizionamento e sentiment creano le condizioni per operazioni dolorose.

A luglio, il dollaro è riuscito ad arrestare il suo costante calo da inizio anno e ha messo in atto una sorta di ripresa. Verso la fine del mese, l'indice del dollaro ha superato al rialzo la sua media mobile a 50 giorni, innescando una sorta di compressione delle posizioni corte e recuperando il 3%.

Nel Fund Manager Survey di giugno, Bank of America ha evidenziato che gli investitori erano al massimo sottopesati sul dollaro rispetto a vent'anni fa. Il sondaggio di luglio ha rivelato che le posizioni corte sul dollaro erano l'operazione più affollata, con il numero di investitori che si coprivano da un ulteriore calo in calo al 33%, dal 40% di maggio.

All'inizio di questa settimana, gli analisti del mercato valutario hanno osservato che il dollaro aveva superato al rialzo la sua media mobile a 50 giorni, un importante indicatore tecnico che suggerisce una potenziale rottura. Tuttavia, Hartnett ritiene che il mondo sia ancora eccessivamente sovrappesato sugli asset statunitensi e che, finché gli Stati Uniti non risolveranno i loro problemi di debito, gli investitori internazionali copriranno la loro esposizione al dollaro o la ridurranno del tutto.

Se l'indice del dollaro dovesse rimbalzare alla sua media mobile a 200 giorni di 103, Bank of America ha affermato che consiglierà di vendere nuovamente il dollaro.

L'altro punto dolente evidenziato da Hartnett è il marcato ribassismo mostrato nei confronti dei titoli del Tesoro statunitensi. Il rendimento mobile decennale di questa classe di attività a gennaio è stato di -1,3%. Da allora, i titoli del Tesoro statunitensi hanno reso il 3%. Con il rallentamento della crescita statunitense e il raffreddamento del mercato del lavoro – in parte dovuto all'adozione dell'intelligenza artificiale che riduce il fabbisogno di manodopera – una Federal Reserve relativamente aggressiva sta appiattendo la curva dei rendimenti riducendo i tassi a lungo termine rispetto a quelli a breve termine.

Per Hartnett, la Fed sta ancorando le aspettative sui titoli obbligazionari a lungo termine, ma il mercato probabilmente non è posizionato per un calo dei rendimenti dei titoli statunitensi a 10 anni dall'attuale 4,38%, in attesa che la Fed adotti una posizione più accomodante.

Posizionamento e sentiment, quindi, convincono Hartnett che un calo al 4%, causando disagio al maggior numero possibile di investitori, corrisponderebbe alla definizione di "dolore".


Le opinioni qui espresse da Michael Hartnett, strategista per Bank of America, sono un tentativo (uno dei tanti possibili) di rimettere orine nel caos. Caos creato, in questo 2025, anche dalle tariffe di Trump, ma solo per una piccola percentuale.

Il grosso del caos che oggi vediamo sui mercati finanziari (che spiega la paralisi dello S&P 500 negli ultimi nove mesi) è stato creato dai fatti del 2020, poi del 2021, poi del 2022, poi del 2023, ed infine anche del 2024.

I fatti del periodo 2020-2025, che mettono tutti gli investitori del Mondo in una situazione critica, sono stati analizzati fin dal mese di marzo del 2025, qui nel nostro Post, nella serie di Post che si chiama Detox.

Ma oggi la nostra scelta è di rimanere sulla stretta attualità: la attualità del venerdì 1 agosto 2025.

Nel primo articolo avete letto di movimenti dei mercati, movimenti che l’articolo collega ai dati per gli utili, ai dati per l’occupazione, ai dati per la crescita del PIL, alle scelte della Banca Centrale, al valore di cambio del dollaro USA.

Il primo articolo collega, ma non spiega.

E senza una spiegazione, senza un lavoro di analisi, non è possibile prendere alcuna decisione, in merito alla destinazione dei vostri risparmi, ed alle scelte presenti e future sui vostri investimenti sui mercati finanziari (asset allocation, gestione del portafoglio, strategia di investimento).

Il primo articolo, per questa ragione, vi informa ma a voi non serve. A voi, non basta. Voi, amici lettori ed investitori, siete alle prese con ben altri problemi: voi dovete decidere.

Come proteggere il proprio risparmio?

Come guadagnare, dai propri investimenti?

L’attualità, in modo incalzante, vi mette di fronte ad una serie di sfide: voi, prima di tutto, dovete scegliere QUALI tra queste sfide volete affrontare. E dopo, dovete decidere COME affrontarle.

Recce’d, con i propri contributi alla pagina BLOG, alla pagina MERCATI, alla pagina NEL MOTORE DELLA PERFORMANCE, ed alla pagina SCELTE DI PORTAFOGLIO, oltre che naturalmente alla pagina TWIT-TWOO da anni vi regala idee, analisi, supporti, metodi.

Quando il caos domina, come è successo venerdì 1 agosto, questi nostri supporti si dimostrano indispensabili, per raggiungere il duplice obbiettivo di proteggere i propri risparmi e conseguire allo stesso tempo un rendimento decoroso, se non eccezionale in qualche caso.

Chi lo dice?

Lo dice la storia, e potremmo a questo proposito citare un centinaio di episodi diversi.

Ora, in questo Post, noi ne scegliamo uno in particolare, che ci è stato inviato a metà della settimana scorsa: e quindi, qualche giorno prima del caos di venerdì 1 agosto.

Quello che state per leggere è un vero e proprio lavoro ai analisi: un lavoro che utilizza sia la statistica, sia le conoscenze storiche, sia l’esperienza di mercati finanziari.

Il lavoro di analisi che per tutti voi è indispensabile.

E non una volta sola. Ogni giorno. Il lavoro di qualità che Recce’d produce, ogni giorno, per i propri Clienti attraverso il quotidiano The Morning Brief e le altre pubblicazioni dedicate. Senza questo lavoro, non si può investire sui mercati finanziari.

Twitter non basta, Facebook non basta, le chiacchiere al bar non bastano, le “soffiate” degli amici non bastano, Milano Finanza non basta, ed il “venditore di Fondi e polizze pagato a retrocessioni” non basta. Tutte queste, sono cose che vi fanno solo perdere soldi.

Per voi sarà utile leggere questo contributo che segue, scelto da noi come chiusura del nostro lavoro di oggi. Sarà utile, perché riporta alla vostra memoria di investitori un episodio del lontano 1987, un episodio che presenta alcune similitudini con la situazione che tutti noi stiamo vivendo proprio oggi, nell’agosto del 2025.

E quindi, amici lettori, un suggerimento: andate pure a godervi il vostro tempo in montagna, oppure in campagna, oppure al mare, in biciletta oppure in barca, in famiglia oppure con gli amici: ma non perdete la connessione con il Mondo, non è il momento giusto per isolarsi, ed al contrario è consigliabile tenersi pronti e disponibili per reagire agli eventi.

Ad esempio, contattando noi di Recce’d: ci troverete qui, al nostro posto, e disponibili per voi, come sempre.

La scorsa settimana è stata positiva per l'indice del dollaro statunitense, la migliore da ottobre 2022, in effetti. Siamo ben lontani dalla prima metà di quest'anno, quando l'indice ha perso quasi l'11%, il peggior rendimento semestrale mai registrato da quando l'indice è stato creato nei primi anni '70.

Ripensandoci, si potrebbe pensare che la debolezza del dollaro abbia giovato alle azioni statunitensi, dato il rendimento totale dell'S&P 500 del 6,2% durante questo recente periodo di calo del dollaro. Ma il mercato azionario statunitense ha registrato performance spettacolari anche in anni in cui il dollaro era insolitamente forte. Quindi forse i movimenti del dollaro non hanno importanza per gli investitori che investono in dollari. O forse, se la Federal Reserve abbassasse aggressivamente i tassi di interesse statunitensi – come auspicato dall'amministrazione Trump – e di conseguenza il dollaro subisse un brusco calo, il mercato azionario potrebbe reagire negativamente.

È già successo: nell'ottobre del 1987. Per approfondire ulteriormente la questione, ho prima misurato i risultati dell'indice del dollaro come indicatore coincidente e anticipatore degli utili per azione dell'indice S&P 500. Ho trovato poco o nulla quando ho indagato sul potenziale del dollaro come indicatore coincidente. Come misurato da una statistica nota come r-quadrato, le variazioni dell'indice del dollaro negli ultimi anni dal 1973 sono state in grado di spiegare o prevedere solo l'1% delle variazioni contemporanee degli utili per azione dell'indice S&P 500. Una delle ragioni di questo r-quadrato prossimo allo zero è che la relazione tra le variazioni del dollaro negli ultimi anni e l'utile per azione è variata notevolmente.

A seconda del quinquennio dal 1973, la correlazione tra i due è stata pari a 0,44 o a meno 0,83. E il dollaro come indicatore anticipatore? Ho poi cercato di verificare se il tasso di variazione del dollaro negli ultimi 12 mesi fosse correlato al successivo tasso di crescita dell'utile per azione (EPS). Ma sono giunto a una conclusione simile a quella precedente. Osservate il grafico sottostante. Rappresenta la correlazione tra la variazione del dollaro negli ultimi 12 mesi e il successivo tasso di crescita dell'EPS dell'S&P 500 negli ultimi 12 mesi per ogni quinquennio a partire dagli anni '70.

Si noti che la correlazione non è stabile. A metà degli anni '90 e di nuovo nel periodo che ha preceduto la crisi finanziaria globale del 2008, la correlazione era fortemente positiva, il che significa che un dollaro più forte ha portato a una crescita più rapida dell'EPS. Al contrario, la correlazione era fortemente negativa negli anni '80 e nei primi anni 2000. Nell'intero periodo a partire dai primi anni '70, le variazioni del DXY negli ultimi 12 mesi sono state in grado di spiegare solo lo 0,4% dei successivi tassi di crescita degli utili per azione (EPS) dell'S&P 500 nei 12 mesi successivi (misurati tramite r-quadrato). In entrambi i casi, non sembra esserci una base statistica per concludere che un dollaro in calo sarà positivo o negativo per gli investitori denominati in dollari in azioni statunitensi.

Ma c'è una base non statistica per la preoccupazione: un inquietante parallelismo con il contesto finanziario prevalente nelle settimane precedenti il crollo del mercato azionario dell'ottobre 1987.

Quel giorno, il Lunedì Nero, il Dow Jones Industrial Average perse il 22,6% in una sola seduta. Sebbene molti fattori abbiano portato al crollo del 1987, il crollo del dollaro statunitense in quel periodo ne fu una causa principale. È quindi possibile che, in situazioni estreme, un dollaro in calo possa effettivamente attirare l'attenzione degli investitori. Prima del Lunedì Nero, l'indice del dollaro era inferiore del 7% rispetto all'inizio del 1987.

Ciò che sembrava preoccupare particolarmente gli investitori era il fatto che l'amministrazione Reagan stesse attivamente spingendo per un dollaro ancora più basso. L'allora Segretario al Tesoro James Baker stava facendo pressioni sulla Federal Reserve affinché riducesse drasticamente i tassi di interesse, con l'intenzione dichiarata sia di stimolare l'economia sia di causare un ulteriore calo del dollaro. Randall Forsyth, direttore di Barron's, nella sua cronaca del crollo del 1987, scrive che i commenti di Baker nella settimana precedente al Lunedì Nero "avevano lo scopo di spingere il dollaro al ribasso rispetto al marco [tedesco] e ad altre valute. Un dollaro più debole era preferibile a tassi di interesse più elevati, che Baker considerava una minaccia per la ripresa economica statunitense, soprattutto con le elezioni del 1988 alle porte. I mercati risposero scaricando le azioni.

La prospettiva di una guerra valutaria rese gli asset rischiosi, soprattutto i titoli costosi, troppo rischiosi.

I parallelismi con l'attuale clima finanziario e politico sono preoccupanti. Le azioni sono ancora più sopravvalutate ora, e ancora una volta un'amministrazione presidenziale combattiva sta esercitando pressioni aggressive sulla Fed affinché riduca i tassi di interesse.

Inutile dire che tassi più bassi spingerebbero quasi certamente il dollaro ancora più in basso rispetto alle valute estere. Naturalmente, il crollo del mercato azionario del 1987 è solo un dato, quindi non c'è alcuna garanzia che la storia si ripeta.

Ma la storia fa rima, e in questo caso è una prospettiva spaventosa.

Valter Buffo
Detox. Insostenibile: le crepe e i cedimenti delle fondazioni
 

Davvero voi, amici lettori, nella settimana appena conclusa avete perso il vostro tempo (sul giornale, sui social, sul Web) ad occuparvi di BCE? Di utili di Unicredit? Degli utili di Tesla? Dello spread tra Italia e Germania? Del risiko bancario in Italia? Delle tariffe contro la UE? Dell’accordo USA Giappone sui dazi? Dei record a Wall Street?

Quello, amici lettori, è soltanto trash.

Voi, amici lettori, lo sapete che nel wrestling fanno soltanto finta, non è vero?

Tutto quello, per noi investitori, vale quanto un reality spagnolo di serie B. Oppure una telenovela brasiliana. Oppure ancora un incontro di wresting.

Il wrestling non è uno sport: è una attività di tipo teatrale, appartiene al mondo dello spettacolo.

C’è chi lo ama, e c’è a chi non piace. Ognuno ha le sue preferenze. A noi, in Recce’d, il wrestling non piace: magari seguiamo il Tour de France.

Quando si parla di soldi e di risparmi, affidarsi al wrestling è una pessima idea.

Il nostro suggerimento agli investitori che si fanno distrarre dal wrestling è: riprendete i contatti con il Pianeta Terra, e rimettete i piedi sulla Terra.

Lasciate il wrestling agli adolescenti. Lasciate ai bambini di giocare con i videogiochi.

Occupatevi della realtà. Concentrate la vostra attenzione sulla realtà.

Quando, fin dal 2023, Recce’d annuncio attraverso il suo Blog al pubblico

  • la Nuova Era per i mercati finanziari; ed anche il

  • Cambio di Paradigma

noi abbiamo voluto anticipare a tutti gli investitori ciò che sta accadendo proprio in questa fase centrale del 2025.

Ovviamente, noi NON stiamo riferendoci ad “AI” e neppure a “DeFi” e neppure ad altri giocattoli per bambini che occupano decisamente troppo spazio sui media, sui social e nelle chat.

No, noi di Recce’d dal 2023 ad oggi abbiamo sempre fatto riferimento ad altre cose, non giocattoli per bambini ma cose concrete per gente adulta: per investitori consapevoli.

E per essere concreti elenchiamo alcuni fatti, alla data del 27 luglio:

  1. la guerra aperta tra Presidenza e Federal Reserve

  2. i dubbi sulla stabilità del sistema finanziario della maggiore economia del Mondo

  3. i fatti del Giappone (da noi analizzati già sette giorni fa)

  4. la nuova fase di FOMO + MEME in Borsa.

Mentre la Borsa (numero 4) è forse la crepa più evidente, più chiacchierata e più social, in un edificio ormai pericolante, le altre tre evidenze che indichiamo qui sopra hanno maggiore importanza per la gestione dei portafogli, per la strategia futura di investimento, e per la asset allocation.

Per questo, nel Post che state leggendo noi ci occupiamo dei primi tre temi indicati sopra, e le Borse (meno importanti, elemento decorativo, più “folcloristiche) le lasciamo per un Post che pubblicheremo tra qualche giorno.

Oggi, ritorneremo quindi sul Giappone, legandolo alla stabilità finanziaria degli Stati Uniti (ricordate gli strilli disperati di Elon Musk?), per arrivare infine a Powell, Trump e la riunione di martedì e mercoledì prossimi del Board della Federal Reserve.

La nuova Era è iniziata almeno da due anni, e il paradigma è totalmente cambiato.

E voi, avete già rivisto, modificato ed adattato la vostra strategia di gestione dei vostri risparmi? Avete cambiato strumenti finanziari? Avete cambiato consulente?

Avete già modificato i criteri su sui basate la vostra asset allocation?

Sapete quale gestione del portafoglio è ottimale, dopo il Cambio di Paradigma? Nella Nuova Era?

Oppure, siete tra i tanti che attendono che il tetto crolli, per assicurarsi contro le calamità?

Ripartiamo come detto dal tema del Post della settimana scorsa: un tema che condizionerà i mercati finanziari, e determinerà le scelte di tutti noi investitori, per molti anni. E non 2-3, piuttosto 10-15

Con la sua grande abilità di manipolatore, Trump nel corso dell’ultima settimana ha distratto l’attenzione di tutti i media del Mondo verso le tariffe: ed in modo particolare (guarda che combinazione!) proprio sulle tariffe contro il Giappone (guarda, che coincidenza!): Forse Trump legge il nostro Blog? Trump forse rincorre Recce’d, per tappare alla bell’e meglio le falle?

Detto tutto questo, l’accordo USA-Giappone sulle tariffe non modifica (per nulla) la situazione del Giappone. Situazione che, come abbiamo scritto sette giorni fa, rimane esplosiva.

Come si legge nell’immagine sotto.

Non è difficile comprendere la ragione per la quale un Governo dimissionario in Giappone ha accettato di assecondare l’esigenza di Trump di fare un accordo subito, anzi immediatamente, dopo il voto politico in Giappone.

Lo leggete nell’immagine sotto.

Nella settimana appena conclusa, però, abbiamo letto anche di una asta (una operazione di collocamento) di Titoli di Stato giapponesi che è andata malissimo (la richiesta è stata molto scarsa).

I mercati non ci pensano? Non prestano attenzione? Per fortuna noi e tutti quelli che hanno esperienza e competenza sufficienti sappiamo che questi temi di mercati sono ignorati per un certo periodo di tempo, e poi all’improvviso diventano la sola cosa che conta.

Chi, quale banca, quale istituzione ha subito le perdite che vedete rappresentate dal grafico qui sotto?

Ovvio che noi non ci stiamo riferendo al solo Giappone: noi vi stiamo informano di una crepa nell’edificio: dove l’edificio è il sistema finanziario internazionale.

Sistema del quale, come certamente ricordate, il Giappone è stato per decenni il maggiore fornitore di capitale.

Verso gli Stati Uniti, certo. Ma pure verso tutti gli altri Paesi, inclusa l’Italia.

Ora non lo è più.

Per ogni investitore, in questo luglio 2025, è necessario riscrivere le regole, ridisegnare la strategia, e modificare la asset allocation, proprio alla luce di quanto vi abbiamo dimostrato con le immagini precedenti ed il testo che le accompagnava.

Ed è cruciale, per ogni investitore che abbia a cuore i propri risparmi, comprendere bene, comprendere a fondo, i collegamenti internazionali: il problema, infatti, non riguarda unicamente il Giappone. nella serie Detox, che avevamo lanciato qui nel Bolo nel mese di marzo 2025, vi abbiamo già ampiamente documentato la portata internazionale di questo tema di investimento.

Come è scritto qui sopra nell’immagine, semplicemente il Giappone sta anticipando ciò che è in arrivo per tutti i Paesi cosiddetti Sviluppati: dagli USA alla Francia, dall’Italia al Regno Unito.

Paesi Sviluppati che oggi hanno modificato la loro natura: oggi li chiamano ancora Sviluppati, ma oggi hanno un indebitamento tipico del Paesi emergenti. Dal Venezuela al Myanmar, dalla Colombia al Congo.

E che per questo debbono essere trattati, da tutti noi investitori, come si tratto i Paesi Emergenti: i loro asset in portafoglio, oggi, devono essere trattati come si gestiscono gli investimenti in Thailandia, in Brasile, in Malesia, in Egitto, in Argentina, eccetera.

Ne abbiamo scritto (come detto sopra) fin dal mese di marzo in questa serie Detox: ma non siamo i soli. Ne hanno parlato, negli ultimi mesi, anche numerosi personaggi molto popolari sui social (uno fra tutti: il Genio, Elon Musk) ed anche personaggi di massima serietà, indiscussa competenza sui mercati finanziari, ed esperienza di gestione del portafoglio.

Noi oggi prendiamo ad esempio Ray Dalio, e vi suggeriamo di leggere con grande attenzione le sue dichiarazioni della settimana scorsa.

Il miliardario Ray Dalio, esperto di hedge fund, è noto per i suoi allarmanti avvertimenti sull'economia e sul debito pubblico, ma ha appena lanciato uno dei suoi più crudi avvertimenti finora, paragonando la crescente crisi del debito pubblico degli Stati Uniti a un imminente "attacco di cuore economico" e sollecitando i politici a rivedere la disciplina fiscale che ha caratterizzato il boom degli anni '90. L'allarme di Dalio, lanciato in una serie di post sui social media e interviste, tra cui quella con Diane Brady di Fortune, arriva mentre il debito pubblico si avvicina ai 37.000 miliardi di dollari e il deficit federale continua ad aumentare, alimentando le preoccupazioni bipartisan sulla salute finanziaria del Paese.

Dalio, fondatore del più grande hedge fund al mondo, Bridgewater Associates, ha descritto la spirale del deficit americano in termini drammatici e viscerali. "Stiamo spendendo il 40% in più di quanto incassiamo, e questo è un problema cronico", ha dichiarato in una recente apparizione su Fox Business. "Quello che stiamo vedendo sono i pagamenti per il servizio del debito... che si stanno esaurendo, quindi è come una placca nelle arterie che comprime il potere d'acquisto".

L'analogia sottolinea una triste realtà: i pagamenti per il servizio del debito sono aumentati vertiginosamente come quota della spesa pubblica, sottraendo sempre più fondi ad altre priorità. Dalio avverte che gli Stati Uniti sono vicini a un punto di svolta in cui dovranno emettere nuovo debito solo per pagare gli interessi sulle obbligazioni esistenti – un ciclo che, a suo dire, potrebbe innescare non solo uno shock finanziario, ma un collasso sistemico che ricorda un arresto cardiaco. Dobbiamo tornare indietro, sostiene, agli anni '90.

Un modello per la ripresa

Dalio sostiene che c'è ancora una via d'uscita, purché il Paese agisca con unità e determinazione. Indica gli anni '90 come modello di risoluzione bipartisan dei problemi, rigore fiscale e crescita economica equilibrata. "Se modifichiamo la spesa e il reddito (dichiarazioni fiscali) del 4% mentre l'economia è ancora in buone condizioni", ha scritto su Twitter, "il tasso di interesse scenderà di conseguenza e la situazione sarà molto migliore". Ha aggiunto che sappiamo che questo tipo di equilibrio può verificarsi perché è già successo in passato, dal 1991 al 1998, riferendosi a come sia i controlli sulla spesa che le misure fiscali mirate abbiano ripristinato l'equilibrio negli anni '90.

Dalo suggerisce che riducendo il deficit federale al 3% del PIL – livelli mantenuti l'ultima volta durante l'era Clinton – gli Stati Uniti potrebbero stabilizzare i mercati, contenere il pagamento degli interessi ed evitare una crisi. In un'apparizione alla CNBC all'inizio di luglio, Dalio ha stimato a oltre il 50% le probabilità che un "trauma" finanziario derivi da una gestione inadeguata del debito.

Avvertimenti passati

Questo non è il primo allarmante avvertimento di Dalio sullo stato dell'economia statunitense. Negli ultimi cinque anni, ha espresso preoccupazione per il debito creato per contrastare gli effetti finanziari della pandemia, sia l'inflazione che la stagflazione, e persino per l'imminente recessione. Sebbene non si sia verificata alcuna recessione dopo il crollo del 2020 dovuto al COVID, Dalio ha avvertito che l'aumento dei prezzi delle attività non stava creando vera ricchezza, poiché l'inflazione stava erodendo il potere d'acquisto.

Un tema ricorrente negli avvertimenti di Dalio è che la malattia potrebbe essere peggiore della cura, criticando i politici che probabilmente agirebbero solo quando l'inflazione sarebbe diventata critica e il valore del dollaro si sarebbe materialmente eroso. Dal 2024 ha espresso varianti delle sue critiche all'"infarto" e alla "placca".

Pur offrendo una ricetta chiara, Dalio esprime scetticismo sul fatto che le attuali dinamiche politiche consentiranno compromessi o le difficili scelte richieste. "Temo che probabilmente non effettueremo questi tagli necessari per ragioni politiche", ha scritto su Twitter, avvertendo che l'assolutismo a Washington potrebbe vanificare gli sforzi per mettere ordine nelle finanze del Paese.

Le conseguenze, sostiene Dalio, sarebbero gravi e di vasta portata: una spesa pubblica eccessiva e continua, un aumento degli oneri per il servizio del debito e una perdita di fiducia tra gli acquirenti di titoli del Tesoro statunitensi.

Questo scenario, afferma, potrebbe degenerare in quello che definisce un "grave problema di domanda e offerta", in cui il mercato si rifiuta di finanziare le abitudini di indebitamento degli Stati Uniti a tassi sostenibili, innescando una crisi finanziaria con onde d'urto globali.

Il crollo di aprile del mercato dei titoli del Tesoro decennali è stato un segnale di un simile rifiuto da parte degli investitori stranieri, che sembravano riluttanti a considerare i dazi pianificati dal presidente Donald Trump molto più aggressivi del previsto.

I ripetuti richiami di Dalio agli anni '90 sono più di una semplice nostalgia: sono un invito al pragmatismo bipartisan e al sacrificio condiviso. Avverte che non agire ora, con l'economia ancora in una posizione stabile, non farà che aumentare i costi (e le difficoltà) delle inevitabili riforme. Sebbene Dalio non abbia rilasciato dichiarazioni in merito, la situazione del debito è in realtà peggiorata nel corso del 2025, con una legge approvata dal Congresso che è destinata ad aumentare il debito per gli anni a venire. Il "One Big Beautiful Bill Act" di Trump aggiungerà 3,4 trilioni di dollari al deficit nel prossimo decennio, secondo il Congressional Budget Office.

L’investitore che oggi, nel luglio 2025, non fondasse le proprie scelte relative all’impiego del risparmio su queste considerazioni è uno sconsiderato, se non un pazzo. Le considerazioni che avete appena letto determineranno il futuro di ogni asset finanziario (sia rendimento sia rischio) per almeno un decennio, fino al 2035.

Non esiste via di fuga.

E non esiste scorciatoia per accorciare i tempi.

Per questa sola, ed unica, ragione, Trump è sempre più in ansia, alza ogni mattina i toni, ed è sempre più disperato.

La sola cosa che un investitore può (anzi, deve) fare è ridisegnare la propria strategia di investimento, rivedere la propria asset allocation, ed adattare la propria gestione del portafoglio a questi fatti che abbiamo appena descritto.

Per individuare, e poi cogliere, le opportunità, davvero enormi, che la attuale situazione offre a noi investitori. A quelli che sono lucidi, consapevoli, e competenti. Non cero a quelli che si fanno incantare dal wrestling e dai videogiochi.

Come si fa? nella serie Detox, abbiamo regalato ai nostri lettori una serie di indicazioni pratiche, nei mesi di marzo, aprile, maggio, giugno e luglio.

Oggi, 27 luglio, vi forniamo un suggerimento concreto: prestate grande attenzione alla riunione della Federal Reserve, il prossimo martedì e mercoledì.

Per i tassi ufficiali di interesse? No.

Per l’inflazione? Neppure.

No: invece, fate molta attenzione alla questione politica: come cambiano le Istituzioni e i rapporti di forza tra le stesse

Noi, per limiti di spazio, non possiamo oggi addentrarci anche in questo argomento: ma sicuramente lo faremo, nelle prossime settimane. Oggi, invece, ci limitiamo ad un testo molto breve ma carico di significato: che vi sarà, a tutti voi lettori, utilissimo per leggere, interpretare e poi utilizzare i fatti ed i dati della prossima settimana.

Il testo si riferisce agli attacchi (ormai quotidiani) della Casa Bianca alla Federal Reserve, e l’autore spiega perché Powell farebbe meglio a dimettersi subito. Non è la nostra visione delle cose, ma merita attenzione.

Precisiamo, che il testo che leggerete è in realtà il contenuto di due Post successivi su questo argomento.

Nessun investitore oggi può ignorare questo scenario. nessun investitore può investire razionalmente se non valuta oggi le ricadute su tutti i mercati finanziari del Mondo di questa eventualità. Che pesa più delle tariffe, che pesa più degli utili di Tesla, Google e Nvidia, pesa più dello stesso IRAN, che pesa più del risiko bancario, sul rendimento futuro del vostro risparmio, e sui rischi che state correndo oggi (probabilmente senza rendervene conto).

Nessun investitore deve trascurare la riunione della Federal Reserve di martedì e mercoledì.

Stamattina, le critiche del governo statunitense sia al Presidente della Federal Reserve Powell che all'istituzione stessa si sono ampliate, includendo anche il "mission creep" (l'innalzamento della missione) e l'efficacia di altri funzionari.

Gli sviluppi degli ultimi giorni rafforzano la mia opinione:

Se l'obiettivo del Presidente Powell è salvaguardare l'autonomia operativa della Fed (che ritengo vitale), allora dovrebbe dimettersi.

Riconosco che questa non è l'opinione unanime, che lo spinge a rimanere in carica fino alla fine del suo mandato a maggio. Né si tratta di una soluzione ottimale, che è semplicemente irraggiungibile. Eppure, è meglio di quanto si stia verificando ora – crescenti e diffuse minacce all'indipendenza della Fed – e senza dubbio aumenterà se rimarrà in carica.

Per quanto riguarda la reazione del mercato, la maggior parte dei candidati più frequentemente citati per sostituire il Presidente Powell sarebbe in grado di placare eventuali tensioni di mercato.


Qualcuno mi ha chiesto di approfondire il mio post precedente, quindi lasciatemi iniziare con due ipotesi.

La prima, e ne sono fermamente convinto, è che l'indipendenza della banca centrale sia fondamentale per ottenere risultati economici migliori. È un principio fondamentale che guida il mio pensiero su questo tema.

La seconda, e probabilmente più una realtà che un'ipotesi (come è stato dimostrato ancora una volta in un briefing alla Casa Bianca), è che gli attacchi dell'Amministrazione al Presidente Powell probabilmente si intensificheranno nei giorni e nei mesi a venire. Inoltre, non lo prenderanno di mira solo personalmente, ma coinvolgeranno sempre più aspetti più ampi dell'istituzione stessa, come sta già accadendo.

Prese insieme, queste due ipotesi ci collocano saldamente nel regno delle "seconde alternative". La prima alternativa – che il Presidente Powell concluda il suo mandato senza che vi siano attacchi all'indipendenza e alla reputazione della Fed – è altamente improbabile, se non del tutto.

Se l'obiettivo principale è proteggere l'indipendenza della Fed – in cui credo profondamente – dobbiamo chiederci: quale percorso è più adatto a questo scopo?

Opzione uno: il Presidente Powell rimane in carica, ma la Fed diventa un'attrazione ancora maggiore per attacchi e indagini politiche, con particolare attenzione ai recenti errori politici e alle previsioni errate (tra cui quella di un'inflazione "transitoria"), al "mission creep", a una costosa ristrutturazione, alle accuse di insider trading, alle lacune nella supervisione di alcune banche con sede in California e altro ancora. Nel frattempo, si prevede che il suo mandato non verrà rinnovato a maggio e, ben prima di allora, mercati e decisori politici lo considereranno un'anatra zoppa con un potere di forward guidance limitato, in quanto verrà nominato un nuovo Presidente della Fed (probabilmente entro le prossime settimane).

Opzione due: il Presidente Powell si dimette volontariamente. Gli attacchi politici alla Fed probabilmente si attenueranno in modo significativo e un successore credibile verrà nominato da una rosa di candidati selezionati che include già candidati impegnati a preservare l'autonomia della Fed e, in alcuni casi, a rafforzarla per il futuro.

Ancora una volta, mi rendo conto che questa non è l'opinione unanime. La maggior parte preferisce ancora l'opzione "prima scelta", ovvero che il Presidente Powell rimanga in carica senza interferenze politiche. Ma temo che non sia più realizzabile. Se fosse fattibile, sarei pienamente d'accordo.

E un'ultima nota: chiunque succeda al Presidente Powell dovrà inevitabilmente portare avanti delle riforme all'interno della Fed. Per capire come potrebbero presentarsi alcune di queste riforme e perché siano importanti, vi rimando al recente rapporto del G30 .

Recce’d può fornire, al lettore che lo richiede, copia di questo rapporto del G30 citato.

Vi abbiamo regalato, attraverso questo nostri nuovo lavoro, un panorama completo del sistema finanziario internazionale: ovvero, le basi (concrete e solide) sulle quali fondare la vostra gestione del risparmio, la vostra attuale asset allocation, e la futura strategia di gestione.

Come detto, mancano le Borse: che più che mai, oggi, sono “smoke and mirrors”, ovvero specchietti per le allodole. Sono per il 95% “noise” (rumore e confusione) e per il 5% (forse) autentico valore per chi ci investe.

Ci ritorneremo presto.

Valter Buffo
Detox. L'anello debole e quota 150
 

Tutti oggi si chiedono se quello di domani sarà un evento epocale.

Sarà l’evento di una settimana?

L’evento dell’estate?

L’evento del 2025?

Avrà un impatto significativo sui mercati finanziari?

Vi diciamo immediatamente quale è il nostro modo di vedere le cose: le Elezioni di domenica 20 luglio in Giappone, in sè, non saranno l’evento dell’anno. Ma è tutto il Giappone, nel suo insieme, che sarà nel 2025 uno dei fattori decisivi.

Più importante di: 1. Trump e le tariffe 2. Trump e Powell 3. Trump e Epstein 4. Trump ed il Big, Beautiful Bill 5. la guerra in Ucraina 6. la guerra in IRAN … insomma più importante di tutto ciò di cui voi lettori leggete, sentite e parlate con gli amici (e con il “consulente pagato a retrocessioni sui prodotti finanziari”). Incluse le Borse, di tutto il Mondo.

Ed in aggiunta, vi diciamo che il tema di investimento “Giappone” è strettamente legato al tema “Detox”, al quale noi da marzo stiamo dedicando una serie di Post nel Blog.

Detox è il solo tema di investimento del 2025: definisce la asset allocation, determina la strategia di investimento, domina la gestione del portafoglio titoli. da Detox non si scappa: nessuno sfugge a Detox. Lo leggerete anche alla chiusura di questo Post.

Oggi dunque nel nuovo Post della serie Detox regaliamo a tutti i nostri lettori un flusso ordinato, selezionato, ed aggiornato di informazioni e dati, che consentono al nostro lettore di utilizzare nel modo migliore le informazioni che da domani 20 luglio arriveranno sui mercati finanziari dal Giappone.

Perché ovviamente, il Giappone è una delle grandi opportunità del 2025, per tutti gli investitori. per questo, oggi non è possibile fare la gestione del portafoglio, non è possibile decidere una asset allocation, non è possibile definire la strategia di gestione, senza avere prima ben compreso che cosa sta per succedere in Giappone.

Vediamo allora, in primo luogo, di offrire al lettore del nostro Blog un sintetico ma qualificato riassunto dello stato delle cose.

Riepilogo

  • L'esito delle elezioni potrebbe portare a maggiori stimoli fiscali e pressioni sul mercato obbligazionario

  • I rendimenti dei titoli di Stato giapponesi sono saliti alle stelle a causa delle preoccupazioni fiscali, in concomitanza con il calo del consenso di Ishiba

  • I partiti di opposizione chiedono tagli fiscali per alleviare il peso dell'inflazione

TOKYO, 15 luglio (Reuters) - Gli investitori in titoli di Stato giapponesi si stanno preparando a un potenziale cambio di potere nelle elezioni della Camera Alta di questo fine settimana, che potrebbe mettere a dura prova le già fragili finanze del Paese, con i rendimenti a lunga scadenza che salgono ai massimi storici con l'avvicinarsi del voto.

Il calo di popolarità del Primo Ministro Shigeru Ishiba suggerisce che anche il suo modesto obiettivo di mantenere la maggioranza sia irraggiungibile, con un nuovo sondaggio d'opinione dell'emittente nazionale NHK che ha assegnato al Partito Liberal Democratico al governo il punteggio più basso dal suo ritorno al potere nel 2012.

Una sconfitta nel voto di domenica potrebbe portare a qualsiasi cosa, da un cambiamento nella composizione della coalizione alle dimissioni di Ishiba, sebbene anche lo scenario meno destabilizzante possa comunque vedere un'influenza maggiore di posizioni politiche orientate agli stimoli.

Tutti e tre i principali partiti di opposizione propugnano una qualche forma di riduzione dell'imposta sui consumi, con il partito populista di destra Sanseito, in rapida ascesa, che propone l'eliminazione graduale dell'IVA. Nel frattempo, uno dei principali rivali di Ishiba per la leadership del LDP è il reflazionista Sanae Takaichi.

Il rendimento del JGB a 30 anni è balzato al record del 3,195% martedì, mentre il rendimento a 20 anni è salito al massimo da novembre 1999 al 2,65% e quello a 10 anni all'1,595%, il massimo da ottobre 2008.

"Mentre il rumore verso un'ulteriore spesa fiscale si fa più forte, abbiamo aumentato il nostro sottopeso sul Giappone nel suo complesso", ha dichiarato Ales Koutny, responsabile dei tassi internazionali di Vanguard.

"Il Giappone sta seguendo un percorso simile a quello intrapreso dal Regno Unito un paio di anni fa", ha affermato Koutny. "Se non ci saranno restrizioni fiscali, il mercato obbligazionario inizierà a esercitare pressione sull'economia".

Il debito pubblico giapponese è il più alto nei paesi sviluppati, pari a circa il 250% del PIL.

Le preoccupazioni per le promesse di generosità fiscale da parte dei partiti di opposizione hanno contribuito ad alimentare una svendita dei cosiddetti rendimenti dei JGB a lunghissimo termine a fine maggio, spingendo i rendimenti a 30 anni a picchi record del 3,185% e i rendimenti a 40 anni a un livello senza precedenti del 3,675%. Il titolo a 40 anni non era ancora stato scambiato alle 03:25 GMT di martedì.

Il Ministero delle Finanze è riuscito a riportare un po' di calma sul mercato con l'intenzione di ridurre l'emissione di obbligazioni a 20, 30 e 40 anni per affrontare lo squilibrio tra domanda e offerta per queste scadenze, dopo il forte calo registrato quest'anno dalla domanda tradizionale delle compagnie di assicurazione sulla vita.


Il Ministro delle Finanze Katsunobu Kato ha dichiarato martedì di monitorare attentamente la situazione del mercato e di continuare a lavorare su un'adeguata gestione del debito per preservare la fiducia degli investitori.

Nel frattempo, la reticenza della Banca del Giappone ad aumentare ulteriormente i tassi di interesse in un contesto economico globale incerto ha incoraggiato gli investitori a rimanere in disparte.

"Se un mercato così privo di domanda continua e gli investitori non prevedono aumenti dei tassi entro quest'anno fiscale, la volatilità dei titoli di Stato giapponesi aumenterà, soprattutto nel lungo termine", ha affermato Kentaro Hatono, gestore di fondi presso Asset Management One, che afferma di adottare un atteggiamento attendista a causa dei rischi di un irripidimento della curva dei rendimenti dopo l'esito delle elezioni.

Barclays calcola che l'aumento dei rendimenti a 30 anni attualmente incida su un taglio di circa tre punti percentuali dell'aliquota del 10% dell'imposta sui consumi in Giappone.

"Anche se i partiti al governo mantenessero la maggioranza alla Camera Alta, non sarebbero comunque in grado di approvare le leggi di bilancio, inclusa la prossima manovra integrativa, senza la cooperazione dei partiti di opposizione", hanno scritto gli analisti della banca con sede in Giappone in una nota di ricerca.

"In questo contesto, riteniamo che probabilmente si assisterà a una convergenza verso una proposta di bilancio espansiva".

I tagli all'imposta sui consumi stanno guadagnando consensi tra l'opinione pubblica: un recente sondaggio del quotidiano Asahi ha mostrato che il 68% degli elettori ritiene che un taglio dell'imposta sulle vendite sia il modo migliore per attutire il colpo dell'aumento del costo della vita.

Ishiba, un politico fiscalmente aggressivo, ha evitato questa opzione a favore di elargizioni in denaro.

Un risultato elettorale negativo per la coalizione di governo innescherà una svendita di titoli JGB a lunghissimo termine da parte dei cosiddetti investitori "real money", tra cui compagnie di assicurazione sulla vita e investitori istituzionali, prevede Toshinobu Chiba, gestore di fondi presso Simplex Asset Management.

"Se i partiti di opposizione vinceranno, il deficit pubblico subirà un'enorme espansione", ha affermato Chiba. "La curva dei rendimenti dei titoli JGB si irripidirà notevolmente."

Servizio di Kevin Buckland e Rocky Swift. Revisione di Shri Navaratnam e Lincoln Feast


Allo scopo di garantire ai nostri lettori una sintetica ma completa ricostruzione dello stato delle cose, in questo Post noi ci affidiamo ai dati che presentiamo nelle immagini che abbiamo selezionato per i lettori, ma pure ad un secondo articolo riassuntivo, questa volta di Wall Street Journal.

I crescenti timori che le imminenti elezioni parlamentari in Giappone possano mettere a dura prova la sua posizione fiscale hanno spinto i rendimenti dei titoli di Stato a lunga scadenza a un forte rialzo.

I mercati temono che le elezioni della Camera Alta del 20 luglio possano privare la coalizione di governo della sua maggioranza e stimolare un aumento della spesa pubblica, che potrebbe essere finanziato da una maggiore emissione obbligazionaria.

Il rendimento ventennale del debito pubblico giapponese è salito di 4,5 punti base al 2,650% martedì mattina, il livello più alto da novembre 1999, secondo il fornitore di dati Quick. Il rendimento a 30 anni è salito di 4,0 punti base, raggiungendo il massimo storico del 3,195%, mentre il rendimento a 10 anni è salito di 2,5 punti base, raggiungendo l'1,595%, il livello più alto dall'ottobre 2008.

Gli operatori di mercato sembrano prepararsi a scenari elettorali che potrebbero avere un impatto significativo sul mercato dei titoli di Stato giapponesi, come i tagli alle imposte sui consumi, ha dichiarato Ataru Okumura, senior Japan Rates Strategist di SMBC Nikko Securities, in un commento.

"Non c'è dubbio che la politica fiscale del governo dopo le elezioni avrà un'influenza significativa sulla direzione futura [dei titoli di Stato giapponesi]", ha affermato Okumura.

In una campagna politica dominata dal malcontento economico, con le famiglie giapponesi schiacciate dall'inflazione e dagli scarsi aumenti salariali, i partiti di opposizione di ogni schieramento chiedono tagli all'imposta sui consumi, ha affermato Stefan Angrick, responsabile dell'economia del Giappone e dei mercati di frontiera di Moody's Analytics.

Il Primo Ministro Shigeru Ishiba ha definito i tagli alle imposte sui consumi insostenibili e ha promesso un sostegno finanziario limitato, ha scritto Angrick in un rapporto.

L'inflazione core al consumo in Giappone è aumentata a maggio. I prezzi del riso sono aumentati di oltre il 100% nonostante gli sforzi del governo per allentare la pressione. L'inflazione al consumo nell'area metropolitana di Tokyo, considerata un indicatore anticipatore delle tendenze nazionali, ha subito un calo a giugno, pur rimanendo saldamente al di sopra dell'obiettivo del 2% per l'inflazione giapponese fissato dalla Banca del Giappone.

I sondaggi dei media locali hanno segnalato una crescente probabilità che la coalizione al potere Partito Liberal Democratico-Komeito non riesca a ottenere la maggioranza, ha osservato Okumura di SMBC Nikko Securities.

"È probabile che il mercato inizi a posizionarsi per una sconfitta del partito al potere e le dimissioni del Primo Ministro come scenario principale", ha aggiunto Okumura.

Mentre i mercati scontano il rischio che la coalizione al potere perda la maggioranza e che Ishiba possa dimettersi, lo yen continua a sottoperformare.

Le dimissioni di Ishiba e la perdita del mandato della sua coalizione potrebbero iniettare ulteriore volatilità nei mercati JGB, non solo a causa delle aspettative di una politica fiscale più espansiva, ma anche della resistenza politica a un'ulteriore normalizzazione dei tassi di interesse da parte della Banca del Giappone, secondo alcuni osservatori di mercato.

A fronte di un'inflazione statica e di una volatilità estera, la banca centrale si trova già in una situazione difficile, in attesa dell'esito dei difficili negoziati commerciali tra Giappone e Stati Uniti per l'introduzione di tariffe doganali agevolate.

Ciò detto, i timori per il deterioramento fiscale potrebbero essere eccessivi.

Il ritorno dell'inflazione ha incrementato le entrate fiscali, riducendo drasticamente il deficit pubblico e riportando il rapporto debito/PIL del Giappone ai livelli pre-pandemici, secondo Angrick di Moody's Analytics.

"Nonostante tutte le preoccupazioni fiscali negli ambienti politici e mediatici di Tokyo, né la coalizione di governo né l'opposizione stanno davvero premendo l'acceleratore fiscale", ha affermato. "Nella migliore delle ipotesi, le loro proposte allentano leggermente il freno fiscale". Scrivete a Ronnie Harui all'indirizzo ronnie.harui@wsj.com


La lettura dei due resoconti che avete letto qui sopra, unita alla serie di dati che noi abbiamo selezionato e che leggete nelle immagini, rende superfluo precisare quanto sono grandi queste opportunità, e quali mosse di portafoglio occorre mettere in pratica per coglierle. Come noi, per i nostri Clienti, abbiamo fatto negli Anni 2020, 2021 e successivi. Anche adesso, nel luglio 2025.

Restiamo in ogni caso a vostra disposizione, se interessati a confrontarvi sul timing delle operazioni, e sugli strumenti da utilizzare, e sulle percentuali di portafoglio, e sugli intermediari più adatti per cogliere in pieno queste grandi opportunità, tanto grandi quanto sono grandi i movimenti sui mercati finanziari che avete visto nelle nostre immagini di oggi. E che si chiama Detox.

In chiusura del nostro Post, un terzo contributo esterno vi aiuterà a vedere ancora meglio in quale direzione è necessario oggi orientare la strategia di investimento.

Il succo della questione, sta scritto ancora più sotto, dopo che avrete letto l’articolo, nell’immagine che chiude il nostro Post di oggi.


I rendimenti del debito pubblico giapponese decennale hanno raggiunto il livello più alto dalla crisi finanziaria del 2008, poiché i mercati iniziano a scontare il rischio di promesse elettorali populiste e l'incertezza politica in vista delle elezioni. Il rendimento decennale, che si muove inversamente ai prezzi, è salito di 1,5 punti base martedì all'1,59%, poiché un numero crescente di sondaggi suggeriva che il partito Liberal Democratico al governo avrebbe subito pesanti perdite nelle elezioni parlamentari di domenica. "Il mercato ha svenduto in previsione della perdita della maggioranza alla Camera alta da parte del Partito Liberal Democratico", ha affermato Wei Li, responsabile degli investimenti multi-asset di BNP Paribas in Cina.

Gli operatori sono sempre più preoccupati che il voto di domenica possa costringere il Partito Liberal Democratico a fare concessioni ai partiti minori, la cui popolarità è stata costruita su promesse che metterebbero a dura prova le finanze di un paese con il più alto livello di indebitamento pubblico del mondo sviluppato. Il PLD, partito al governo per gran parte della storia del Giappone del dopoguerra, ha perso il controllo assoluto della Camera bassa a ottobre, costringendolo a una scomoda collaborazione con i partiti più piccoli. La perdita della maggioranza nella Camera alta potrebbe innescare una serie di possibili scenari, secondo gli analisti, tra cui una coalizione che affida l'influenza ai partiti populisti di minoranza, l'estromissione del Primo Ministro Shigeru Ishiba o elezioni generali anticipate che comportino un cambio completo di governo.

In vista delle elezioni di domenica, gli elettori hanno espresso insoddisfazione per l'aumento dell'inflazione, la bassa crescita salariale e le tasse elevate, scatenando un'ondata di sostegno per i partiti precedentemente marginali che hanno promesso maggiore spesa pubblica, elargizioni in denaro e tagli all'imposta sui consumi. Il PLD ha anche promesso elargizioni in denaro e misure per abbassare i prezzi dell'energia. Il costo medio stimato delle proposte di ciascun partito sarebbe di 5,3 trilioni di yen (36 miliardi di dollari) ponderato in base alla loro presenza e presunta influenza sulle commissioni di bilancio della Camera alta e bassa, secondo Koichi Sugisaki, stratega dei tassi di Morgan Stanley.

Le preoccupazioni per le elezioni di domenica si sommano a timori più profondi sulla stabilità del mercato del debito pubblico a più lunga scadenza del Giappone, hanno affermato gli analisti dei tassi. A maggio, i rendimenti a 30 anni sono balzati al rialzo dopo una serie di aste inaspettatamente deludenti di debito a 20, 30 e 40 anni. Le aste hanno evidenziato quello che molti strateghi ritengono essere uno squilibrio cronico tra domanda e offerta dopo che le compagnie di assicurazione sulla vita e le banche giapponesi hanno spostato le loro strategie verso il debito a breve termine.

Mentre il ministero delle finanze ha cercato di calmare i mercati riducendo l'emissione di debito a lunghissimo termine, la domanda è rimasta fiacca. Il rendimento a 30 anni è salito di 4 punti base martedì, raggiungendo un massimo storico del 3,205%. "Gli investitori rimangono molto preoccupati per i rischi per la disciplina fiscale giapponese in un contesto di domanda e offerta strutturalmente debole", ha affermato Sugisaki.

Mark Dowding, responsabile degli investimenti per il reddito fisso di RBC BlueBay Asset Management, ha affermato che la pendenza della curva dei rendimenti dei titoli di Stato giapponesi era "in gran parte" dovuta all'eccessiva vendita di debito a lunghissimo termine da parte del governo. "Emettere troppi titoli che il mercato non desidera è un errore politico", ha affermato.

Allo stesso tempo, gli analisti notano che la situazione fiscale del Giappone è migliorata con l'aumento delle entrate fiscali dovuto all'inflazione. "I parametri fiscali del Giappone sono nella migliore forma degli ultimi decenni", ha affermato Stefan Angrick, responsabile dell'economia giapponese di Moody's Analytics. L'ultimo sondaggio dell'emittente statale NHK mostra che il 24% sostiene il LDP e il 7,8% sostiene il principale partito di opposizione, il Partito Democratico Costituzionale del Giappone. Il resto è andato ai partiti di minoranza, incluso il 5,9% del partito apertamente xenofobo Sanseito, la cui campagna ha ampiamente alimentato l'elettorato tradizionale del blocco al potere.



Valter Buffo