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Noi e Rubin: due posizioni opposte

Ci piacerebbe essere Robert Rubin: ex-segretario del Tesoro USA ed ex-Goldman Sachs, uomo di elevata reputazione. Ieri ha dichiarato:

“I don’t have a personal view on whether we now have [market] excesses or not. But it certainly is a realistic possibility when you look at the U.S. stock market, which is near all-time highs, when you look at covenant-light and now non-covenant lending, [and] a vast increase in fixed-income [exchange-traded funds] (...) yields on the sovereign debt of the troubled European countries are relatively inexplicable on a risk-adjusted basis.”

"If there are excesses, the prices of these assets will eventually topple at an unpredictable time (...) Falling assets prices and an unregulated shadow-banking sector pose grave risks to the economy (...) the Fed must keep financial-stability risks in mind when it sets interest-rate policy (...) I believe that the Fed should take systemic risk into consideration in monetary-policy decisions, even though excesses and bubbles are impossible to identify with confidence except ex-post”

Non possiamo che invidiare la leggerezza di queste frasi, dette da parte di chi si sente al di sopra delle parti. Purtroppo a noi non è concessa una posizione così distaccata: la nostra professione ci impone di avere una posizione, ed anche di agire. Anche quando siamo di fronte a un "unpredictable timing of events".

Noi non possiamo permetterci il lusso dei "forse, magari, chissà, un giorno", e per questa ragione non ci sentiamo di condividere il tono di Rubin, che parla delle bolle finanziarie come fossero fenomeni naturali (catastrofi, alluvioni) che non possono in alcun modo essere evitati e neppure compresi (se non dopo).

Abbiamo una posizione diametralmente opposta: le bolle finanziarie non hanno nulla di naturale, sono evitabili perché sono un prodotto dell'attività umana, ed in particolare quelle in atto oggi hanno un padre ed una madre chiaramente identificabili. Forse non è possibile eliminarle del tutto, ma di certo se tra il 2000 ed il 2009 per due volte abbiamo corso il rischio di un crollo del'intero sistema finanziario (come prima era accaduto solo nel 1929) qualche responsabilità da parte dei decisori ci deve essere. Ed oggi, aprile 2015, siamo di fronte esattamente agli stessi prezzi ed esattamente ai medesimi eccessi del 2000 e del 2009.

Gli errori degli ultimi 15 anni partono proprio dagli atteggiamenti di compiacenza come questi.

I Fondi Comuni e la stabilità dei mercati finanziari

Proprio oggi il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato uno studio che riprende un nostro "vecchio" tema: la crescita abnorme, e per certi versi "forzata" sulla massa dei risparmiatori, dei fondi comuni di investimento, nella loro versione più tradizionale che tutti conosciamo (i fondi comuni long-only, di tutte le nature: obbligazionaria, monetaria, azionaria) ha raggiunto quel limite oltre al quale si pongo seri rischi per la liquidità e quindi per la stabilità dei mercati finanziari. Il grafico sotto, dello IMF, spiega in modo molto efficace questo problema: le 500 case di fondi di maggior dimensioni, oggi, hanno in portafoglio il 25% della capitalizzazione totale dei mercati, e questo portafoglio nel suo insieme ha dimensioni superiori al GDP globale. Sono dati che supportano la validità di quanto noi di Recce'd affermiamo da anni: oggi non si può investire senza tenere conto di come è cambiato il mercato negli ultimi 20 anni, delle sue strutture che creano rischi fuori controllo. Al risparmiatore oggi occorrono strategie nuove, del tutto estranee alla tradizionale impostazione media/varianza/asset-allocation e che possano fare a meno dei prodotti finanziari tradizionali, e prima di tutto dei fondi comuni o fondi long only. Il Cliente investitore oggi ha assoluta necessità di servizi "a km zero", basati sui prodotti primari, trasparenti, poco costosi e della massima liquidità, se vuole proteggere il capitale e non incappare nella trappola di anni ed anni di rendimenti a zero o anche sotto zero.

Hedge Funds contro Alternativi

Oggi Reuters ci informa che, durante i primi due mesi del 2015, il saldo netto dei flussi verso e da gli hedge funds è stato negativo per 4 miliardi (l'industria è stimata a 2.500 miliardi in gestione). Il dato negativo segue una striscia di risultati deludenti per il settore, sia "contro benchmark" (l'andamento dell'indice di Borsa) sia in assoluto. In particolare, spicca il fatto che nel 2014 gli indici di categoria abbiamo chiuso con un rialzo inferiore al punto percentuale. Che cosa sta succedendo? Fatte come sempre le necessarie eccezioni, diremo che è venuta alla luce nel post Crisi la debolezza di molte strategie degli Hedge, ed in particolare di quelle che si concentravano su strumenti e mercati illiquidi. La paura di perdere Clienti dopo i side pockets, poi, ha consigliato ai Fondi in questione di ridurre la volatilità, e quindi la leva. Il risultato è quello che vedete nel grafico qui sotto. Il nostro commento è che la categoria "Hedge" appartiene in buona parte al passato: tutto al contrario invece si deve dire per la categoria "Alternativi", che sarà quella dominante nei prossimi 10 anni. Per essere autentici "Alternativi" però non servono né la scarsa trasparenza, né la liquidità trimestrale, né le commissioni altissime e tantomeno gli uffici in Mayfair: serve invece una strategia di investimento autenticamente alternativa. Ovvero, del tutto estranea alla tradizione media-varianza da cui nasce tutta l'industria dei fondi comuni long-only. Solo così ci si potrà salvare dalla fase di DISRUPTION che investirà le strutture e i mercati alla fine dei QE.

Taylor Rule 2.0

Tutto il dibattito degli ultimi mesi sui tassi ufficiali negli USA ruota intorno alla Taylor Rule, la regola definita dall'economista John Taylor che fissa il tasso ufficiale di interesse più appropriato in ogni fase del ciclo economico. Secondo questa regola, il tasso ufficiale di interesse oggi dovrebbe collocarsi tra il 3% ed il 4%, e non a zero: ma come ogni regola, anche questa è destinata a subire delle eccezioni. Ed è proprio questo che sostiene oggi Yellen (e prima di lei Bernanke): in questo particolare momento, la regola, che Yellen riconosce valida, non si potrebbe però applicare perché il tasso medio storico di interesse reale, che si trova al 2%, non è adatto alla alla particolare fase che l'economia USA attraversa (ormai da quasi dieci anni). Ci pare utile riproporre qui le esatte parole pronunciate da Yellen al Congresso pochi giorni fa, e lasciare poi a chi legge la valutazione:

“Even with core inflation running below the Committee’s 2 percent objective, Taylor’s rule now calls for the federal funds rate to be well above zero if the unemployment rate is currently judged to be close to its normal longer-run level and the “normal” level of the real federal funds rate is currently close to its historical average. But the prescription offered by the Taylor rule changes significantly if one instead assumes, as I do, that appreciable slack still remains in the labor market, and that the economy’s equilibrium real federal funds rate–that is, the real rate consistent with the economy achieving maximum employment and price stability over the medium term–is currently quite low by historical standards. Under assumptions that I consider more realistic under present circumstances, the same rules call for the federal funds rate to be close to zero…

“For example, the Taylor rule is Rt = RR* + πt + 0.5(πt -2) + 0.5Yt, where R denotes the federal funds rate, RR* is the estimated value of the equilibrium real rate, π is the current inflation rate (usually measured using a core consumer price index), and Y is the output gap. The latter can be approximated using Okun’s law, Yt = -2 (Ut – U*), where U is the unemployment rate and U* is the natural rate of unemployment. If RR* is assumed to equal 2 percent (roughly the average historical value of the real federal funds rate) and U* is assumed to equal 5-1/2 percent, then the Taylor rule would call for the nominal funds rate to be set a bit below 3 percent currently, given that core PCE inflation is now running close to 1-1/4 percent and the unemployment rate is 5.5 percent. But if RR* is instead assumed to equal 0 percent currently (as some statistical models suggest) and U* is assumed to equal 5 percent (an estimate in line with many FOMC participants’ SEP projections), then the rule’s current prescription is less than 1/2 percent.”

Earnings yield, vintage 2014

Probabilmente almeno nella prima metà del 2014 si discuterà molto del rapporto tra i rendimenti delle obbligazioni e il rendimento atteso dalle azioni. Il tema è in parte scolastico, e spesso di poca utilità quando si tratta di decidere come operare sui mercati: negli ultimi anni, però, le banche di investimento hanno utilizzato con grande frequenza ed intensità il tema della excess liquidity per spingere i clienti verso l'investimento azionario (seppure a livelli di valutazione che, a posteriori, le stesse banche di investimento ci dicono essere folli). Diventa quindi importante seguire questo dibattito, per capire quale impatto avrà sul comportamento degli investitori: la statistica non aiuta, come si vede dal grafico di Ned Davis, che ci racconta che lo earnings yield in eccesso del rendimento a 10 anni spinge il mercato al rialzo solo quando siamo di fronte a differenze molto molto ampie. E non è certo questo il caso, oggi, visto il livello dei prezzi delle azioni. La conclusione che a noi sembra più utile per chi investe è che il rapporto tra earnings yield e rendimento delle obbligazioni, in anni di politica monetaria "non convenzionale", risulterà probabilmente "non convenzionale". Il passato, quindi, non è un utile riferimento per il futuro, ed il Fed Model va messo da parte.