Paradigm shift: la Nuova Era e come gestirla

 

La settimana scorsa, in questo Blog, Recce’d pubblicava due Post.

Il primo dei due Post anticipava ai lettori alcune delle cose che oggi approfondiremo, e che trovate sulle prime pagine dei quotidiani, dei settimanali, e dei TG.

Il secondo dei due Post di fatto si occupava del medesimo tema, ma lo affrontava da una diversa angolazione, ovvero quella geopolitica.

Una settimana prima avevamo offerto gratuitamente a tutti i lettori una serie di pratici suggerimenti per la gestione del proprio risparmio e del proprio portafoglio titoli (inclusi i BTp, ovviamente). Particolarmente azzeccati, alla luce dei fatti delle ultime due settimane.


Recce’d peraltro, aveva con ampio anticipo messo in evidenza, attraverso una serie di Post, il tema del debito come tema determinante, per tutte le performances nel 2025 e negli anni a venire. E lo potete leggere qui:

  1. già il 30 novembre scorso, noi di Recce’d abbiamo anticipato gratuitamente a tutti i lettori il tema di investimento che oggi è centrale;

  2. il 7dicembre Recce’d in un Longform’d spiegava nel dettaglio il perché oggi per un investitore tutta intera l’America è una gigantesca bolla

  3. il 14 dicembre il nostro Post ha anticipato alcuni aspetti del tema che ritrovate oggi nel nuovo Post che state leggendo; tema che è diventato adesso, anche per la Amministrazione Trump il tema centrale

  4. il 21 dicembre abbiamo fornito attraverso il nostro Post concrete indicazioni su come importare la strategia di gestione del portafoglio per il 2025, ordinando per importanza i fattori decisivi

  5. il 28 dicembre il nostro Post abbiamo offerto a tutti i lettori il nostro classico “reality check” aggiornato alla fine del 2024 alla luce dei dati e dei fatti che commentiamo in questo Post

  6. il 31 dicembre (Longform’d) abbiamo spiegato per quale ragione … ne è valsa la pena, di aspettare il 2025

  7. ed il giorno 1 gennaio 2025 il nostro Post ha illustrato il grande lascito del 2024 per tutti noi investitori

Va riconosciuto che Trump stesso aveva illustrato chiaramente le sue intenzioni a fine gennaio.

Trump è un uomo che capisce poco di finanza, e quasi nulla di economia, ma ha un intuito potente, ed è scaltro: ha capito alla perfezione (e ben prima delle Elezioni) che il problema da affrontare, il rischio che potrebbe mettere lui e la sua Amministrazione in ginocchio, è uno ed uno solo, e va affrontato subito ed a qualsiasi costo.

Trump lo ha capito, molto prima di Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, UBS, BNP Paribas, Blackrock ed Amundi. Molto prima dei financial advisor, dei wealth managers, dei “consulenti pagati a retrocessioni”, dei promotori finanziari. E molto, molto prima del mondo dei social, delle chat, dei siti di trading-on-line.

Poi la di recente il Ministro del Tesoro americano ha confermato tutto.

Già a fine gennaio, e non solo per noi, era chiaro che si trattava di una scelta deliberata.

E pensate, che … persino il pubblico dei social di recente se ne è reso conto. Dopo una forte sbronza, qualcuno ha recuperato parte della lucidità.

La settimana scorsa, poi, lo stesso Presidente americano ha rafforzato il messaggio a tutti gli investitori: dichiarando quindi il suo obbiettivo.

Obbiettivo confermato a distanza di ore anche dal (potente) Ministro del Commercio estero americano.


Per renderci utili ai nostri lettori, dal punto di vista pratico, noi ora mettiamo da parte la politica, e ci concentriamo sui mercati finanziari: ma oggi, il nostro sguardo si concentra sulle Borse.

Quali sono, le prospettive degli investimenti azionari, in questa nuova Era?

Abbiamo scelto di selezionare, e tradurre per i lettori del Blog un’analisi di queste novità: per una ragione specifica, abbiamo scelto le analisi ed i ragionamenti di uno dei più noti analisti tra quelli che spingono (anche contro ogni ragione e buon senso) la Borsa al rialzo sempre e comunque.

Abbiamo scelto, quindi, di proporvi in lettura l’analisi di un notissimo personaggio, Ed Yardeni, che si colloca molto, molto distante da Recce’d: un promotore della Borsa sempre e comunque, un fan della Borsa (nel senso di “fanatico”) con atteggiamenti che sono vicini a quelli delle curve da stadio.

E che si colloca, da sempre, anche vicino alle posizioni di Donald Trump in materia di economia, e lo ha sostenuto da sempre.

Ma che oggi, persino lui, è costretto a fare un passo indietro: ed in qualche modo, a rielaborare, modificare, correggere e cambiare i toni e la scelta delle parole. Allo scopo di non perdere del tutto la faccia e la credibilità, ed allo stesso tempo però mettere i propri followers di fronte all’evidenza che “i tempi sono cambiati”.

Leggiamo insieme qui sotto.


Di Ed Yardeni ed Eric Wallerstein

Invece di accordi commerciali rapidi, Trump ha innescato una guerra commerciale

Stiamo aumentando le probabilità di una recessione indotta dai dazi dal 20% al 35%.

La raffica di ordini esecutivi, licenziamenti e dazi del presidente Donald Trump ha scosso gli investitori, scosso la fiducia nell'economia statunitense e infiammato i timori di inflazione. Il dolore di queste azioni decisive si sta facendo sentire ora, mentre i benefici delle sue altre politiche sono più lontani.

Di conseguenza, stiamo rivedendo le nostre probabilità soggettive di due delle nostre tre prospettive. Non stiamo cambiando il 55% probabilmente assegnato al nostro scenario di base "Roaring 2020s", ma ora vediamo meno possibilità di uno scenario di crollo/crollo del mercato azionario (10%) e maggiori probabilità di una recessione e di un mercato ribassista (35%).

Non abbiamo dovuto cambiare le nostre probabilità soggettive per i nostri tre scenari economici alternativi per un bel po' di tempo. Potremmo doverlo fare più frequentemente nei prossimi mesi, o addirittura nelle prossime settimane, in reazione alla natura volatile del processo decisionale sotto Trump. Gli spiriti animali iniziali di Trump 2.0 sono stati superati dall'incertezza scatenata dal "Trump Turmoil 2.0".

L'amministrazione è in carica da meno di due mesi. Il turbine di tariffe imposte ai principali partner commerciali dell'America, i tagli al lavoro federali attuati dai ragazzi del "DOGE" e il capovolgimento dell'ordine mondiale sono stati da capogiro.

Abbiamo rimandato il cambiamento delle nostre probabilità perché ci aspettavamo che Trump, il maestro "dell'arte dell'accordo", avrebbe ottenuto un accordo con Canada e Messico che gli avrebbe consentito di dichiarare vittoria e di seppellire la sua minaccia di imporre tariffe del 25% sugli unici due vicini e maggiori partner commerciali dell'America. Infatti, il 28 febbraio, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Scott Bessent ha affermato che il Messico aveva proposto di adeguarsi alle tariffe di Washington sulla Cina e ha esortato il Canada a fare lo stesso, segnalando un potenziale percorso per Messico e Canada per evitare imposte sulle proprie esportazioni nei prossimi giorni.

"Penso che una proposta molto interessante che il governo messicano ha fatto sia forse quella di adeguarsi agli Stati Uniti sulle nostre tariffe sulla Cina", ha detto Bessent a Bloomberg Television. "Penso che sarebbe un bel gesto se lo facessero anche i canadesi, così in un certo senso potremmo avere una 'Fortezza Nord America' dal flusso di importazioni cinesi".


Ecco una rapida cronologia degli eventi correlati da allora:

1. Lunedì 3 marzo, Trump ha detto che "non c'era spazio per ritardi" e ha implementato i dazi su Canada e Messico il 4 marzo. Trump ha detto che i dazi sono mezzi per diversi fini: costringere i due vicini degli Stati Uniti a intensificare la loro lotta contro il traffico di fentanyl, fermare l'immigrazione illegale, eliminare gli squilibri commerciali delle Americhe e spingere più fabbriche a trasferirsi negli Stati Uniti.

2. Trump aveva già imposto un dazio del 10% sulle importazioni dalla Cina a febbraio. Il tasso è stato raddoppiato al 20% questa settimana. Invece di accordi commerciali rapidi, gli Stati Uniti hanno innescato una guerra commerciale. Il Canada ha imposto dazi di ritorsione agli Stati Uniti martedì. Il Messico annuncerà misure simili questo fine settimana.

3. Il 4 marzo, un portavoce del Ministero degli Esteri a Pechino ha avvertito: "La Cina combatterà fino alla fine di qualsiasi guerra commerciale". La Cina è uno dei maggiori acquirenti di prodotti agricoli statunitensi come pollo, manzo, maiale e soia, e ora tutti questi prodotti saranno soggetti a una tassa del 10%-15%, che entrerà in vigore il 10 marzo. La risposta relativamente limitata di Pechino suggerisce che i cinesi vorrebbero negoziare con gli Stati Uniti sulle questioni commerciali. Pechino non sta intensificando la sua retorica o le tariffe nello stesso modo in cui ha fatto nel 2018, durante l'ultima amministrazione Trump. Allora, ha imposto una tariffa del 25% sulla soia statunitense.

4. Lo scorso fine settimana, l'investitore Warren Buffett ha fatto un raro commento sulle tariffe di Trump, mettendo in guardia sui loro effetti negativi sulla spesa dei consumatori. "[A]bbiamo avuto molta esperienza con [le tariffe]. Sono un atto di guerra, in una certa misura", ha detto Buffett. "Col tempo, sono una tassa sui beni. Voglio dire, la fatina dei denti non li paga! ... E poi cosa?"

Ricalibrare le probabilità: ora che Trump ha iniziato una guerra commerciale, questa potrebbe intensificarsi, o potrebbe attenuarsi. In entrambi i casi, l'incertezza è aumentata in modo significativo, come dimostrato dal forte calo dei prezzi delle azioni all'inizio di questa settimana. I tassi di interesse hanno continuato il loro recente calo, poiché sono aumentate le probabilità di ulteriori tagli dei tassi della Federal Reserve, a dimostrazione del fatto che l'inflazione rimane bloccata al di sopra dell'obiettivo del 2,0% della Fed e che i dazi probabilmente aumenteranno l'inflazione, almeno inizialmente.

Nei commenti recenti, abbiamo minimizzato la probabilità di una recessione nel 2025. Infatti, negli ultimi giorni, abbiamo osservato che la revisione al ribasso del modello di monitoraggio GDPNow della Fed di Atlanta dal 2,3% (q/q SAAR) di giovedì a una stima di meno 2,8% per il primo trimestre riflette due fattori temporanei: un'impennata delle importazioni di gennaio, dovuta alle tariffe anticipate degli importatori, e il gennaio più freddo dal 1988, che ha depresso la spesa dei consumatori. Ci aspettiamo che questi grandi freni al PIL saranno invertiti a febbraio e marzo. Quindi prevediamo che il PIL reale aumenterà di almeno l'1,5% durante il primo trimestre. Tuttavia, le conseguenze negative delle politiche di Trump 2.0 si stanno verificando prima di quelle positive. Tariffe, deportazioni e tagli di posti di lavoro nel governo federale stanno pesando sull'economia. Un'estensione dei tagli fiscali del 2017 deve ancora avvenire. La deregolamentazione aziendale si sta sviluppando lentamente. L'onshoring è in corso e sempre più aziende si stanno impegnando ad aumentare la spesa in conto capitale negli Stati Uniti.

Considerando quanto sopra, stiamo ricalibrando le nostre probabilità soggettive per i nostri tre scenari:

1. "Roaring 2020s" (55%, invariato): la nostra probabilità soggettiva del nostro caso base rimane la stessa al 55%. Stiamo ipotizzando che la guerra commerciale non si intensifichi. Stiamo continuando a scommettere sulla resilienza dell'economia e su un aumento guidato dalla tecnologia nel tasso di crescita sia della produttività che del PIL reale.

In questo scenario, l'economia continua a crescere, un picco di inflazione correlato ai dazi si rivela transitorio e il mercato azionario rimane instabile durante la prima metà dell'anno, con l'S&P 500 SPX che rimane al di sotto del suo massimo storico del 19 febbraio. L'indice riprende la sua ascesa in territorio record durante la seconda metà dell'anno, raggiungendo quota 7.000 entro la fine dell'anno.

2. Meltup/meltdown (10%, in calo dal 25%): presumibilmente, c'è già stato un meltup in alcune aree del mercato azionario; si stanno sciogliendo da metà febbraio. Combinando le probabilità di questi due scenari rialzisti si riducono le probabilità che il mercato rialzista rimanga intatto, senza una correzione o un mercato ribassista nel 2025, al 65% dall'80%.

3. Bucket ribassista (35%, in aumento dal 20%): negli ultimi tre anni, abbiamo assegnato una probabilità soggettiva del 20% alle varie prospettive che potrebbero andare male per l'economia statunitense, con conseguente recessione e un mercato ribassista per le azioni. La stiamo aumentando al 35%. Nel 2022 e nel 2023, la nostra preoccupazione principale era che le crisi geopolitiche (tra cui la guerra tra Russia e Ucraina e la guerra per procura tra Israele e Iran) avrebbero fatto salire alle stelle i prezzi del petrolio, costringendo la Federal Reserve statunitense a mantenere una posizione monetaria restrittiva e costringendo i consumatori a ritirarsi. Ciò sembra meno probabile, poiché il prezzo del petrolio è rimasto debole.

Negli ultimi due anni, anche il rischio di una crisi del debito del governo federale è aumentato alcune volte insieme ai rendimenti obbligazionari. Ma ora il rendimento del Tesoro statunitense a 10 anni BX:TMUBMUSD10Y è sceso da un recente massimo del 4,79% del 13 gennaio al 4,27% attuale, nonostante i segnali che i dazi di Trump 2.0 stiano già aumentando l'inflazione prevista e effettiva. Gli investitori obbligazionari stanno dando più peso alle componenti "stag" rispetto a quelle "flation" di uno scenario di stagflazione. Stiamo facendo lo stesso aumentando le probabilità di una recessione indotta dai dazi dal 20% al 35%.

I dazi di Trump e i tagli di posti di lavoro imposti dal DOGE stanno deprimendo la fiducia dei consumatori. Trump ha mantenuto la promessa di fermare l'immigrazione illegale. I prezzi del petrolio stanno calando come promesso, anche se ciò potrebbe avere più a che fare con la debole domanda che con una maggiore offerta. I tassi dei mutui stanno calando. Tuttavia, Trump ha anche promesso di abbassare i prezzi al consumo; invece, i suoi dazi faranno aumentare questi prezzi.

Stiamo ancora scommettendo sulla resilienza dei consumatori e dell'economia. Tuttavia, Trump Turmoil 2.0 sta testando in modo significativo la resilienza di entrambi. Ecco perché abbiamo ricalibrato le nostre probabilità soggettive.

Ed Yardeni è presidente di Yardeni Research Inc., un fornitore di analisi e raccomandazioni di strategia di investimento globale e allocazione delle attività. Eric Wallerstein è il capo stratega di mercato di Yardeni Research. Questo articolo è tratto dal "Morning Briefing" di Yardeni Research del 5 marzo 2025 - "I disordini di Trump aumentano le probabilità di una recessione".

Gli argomenti di Yardeni che avete appena letto, così come le sue conclusioni, sono come già detto molto distanti dal nostro modo di vedere le cose.

In particolare lo scenario che Yardeni chiama “Roaring 20s” a noi sembra privo di supporti nella realtà attuale, e costruito in tutto e per tutto con finalità commerciali (“pompare” la Borsa).

Gli scenari che Recce’d presenta, ogni mattina, ai propri Clienti in The Morning Brief, sono del tutto diversi da questi, fondati sulla realtà, ed eleborati al solo scopo di CREARE VALORE nei portafogli modello per i nostri Clienti.

Noi di Recce’d non abbiamo nulla, ma proprio nulla, da “pompare”: non i Fondi Comuni di Investimento, non polizze assicurative, non certificati, e non GPM.

Offriamo, qui si seguito, un secondo punto di vista, che è meno lontano dal nostro modo di leggere la realtà dei mercati nel marzo 2025.

Se avete interesse a conoscere con maggiore dettaglio la nostra visione, e come viene applicata ai portafogli modello, è molto facile contattarci (attraverso la pagina CONTATTI del nostro sito) e parlare con noi di tutte le componenti del vostro attuale portafoglio titoli, delle opportunità enormi che si presentano in questa nuova Era dei mercati finanziari, e dei rischi nascosti nella vostra attuale asset allocation.

Inclusi i Bund, e ovviamente i BTp.


I trader stanno iniziando a valutare la possibilità che l'economia statunitense possa entrare in recessione, e un veterano di Wall Street afferma che potrebbe essere effettivamente il piano dell'amministrazione Trump.

Charlie McElligott, stratega di Nomura soprannominato l'analista più in voga di Wall Street dal Financial Times per le sue missive maniacali incentrate sul mercato delle opzioni, ha esposto l'argomento in una nota ai clienti.

Ha affermato che il presidente Donald Trump e la sua amministrazione hanno bisogno di una recessione progettata per causare un rallentamento della crescita e una disinflazione che si tradurrà in tagli dei tassi della Fed e un dollaro statunitense significativamente più debole per la prossima fase del suo programma economico.

Le proposte tariffarie del presidente Trump hanno innescato vendite e rally azionari. Dalle minacce contro Canada e Messico alle nuove imposte sulla Cina e ai dazi di ritorsione più ampi, ecco come queste mosse stanno influenzando il mercato azionario.

In un'altra nota ai clienti mercoledì mattina, McElligott ha citato le osservazioni fatte dal Segretario del Tesoro. Scott Bessent si concentra sulle piccole imprese e sui consumatori che richiederanno un "riequilibrio", poiché Trump di fronte al Congresso martedì sera ha detto di essere "a posto" con un piccolo disturbo dovuto alle tariffe.


L'idea è che i tagli dei tassi della Fed e gli stimoli dal lato dell'offerta derivanti da tagli fiscali e deregolamentazione saranno quindi in grado di far crescere l'economia senza la necessità di spesa pubblica.

Le aspettative di taglio dei tassi stanno aumentando e l'indice del dollaro USA è sceso del 4% dai massimi di inizio gennaio, mentre il democratico Joe Biden è rimasto alla Casa Bianca. Il rendimento del Tesoro a 2 anni sensibile alla politica monetaria è sceso di 44 punti base dai massimi di gennaio.

I mercati sono stati turbati questa settimana dall'imposizione di tariffe da parte di Trump su Canada e Messico e dal loro aumento sulla Cina, poiché i sondaggi sia sulle aziende che sui consumatori sono in netto calo. Sul mercato delle scommesse sulle criptovalute Polymarket, i trader stanno stimando una probabilità del 37% di una recessione negli Stati Uniti quest'anno.

McElligott ha detto che Trump non può dire quasi nulla in questo momento per calmare i mercati, a meno che non faccia un passo indietro completo sul suo programma. Ha detto che un put di Trump, un limite minimo sotto il quale la Casa Bianca verrebbe spinta ad agire per dare una spinta ai mercati azionari, ha un prezzo molto al di sotto dei livelli attuali.

Il benchmark azionario statunitense S&P 500 è in calo del 5% rispetto al picco di metà febbraio e del 2% per l'anno.

Il paniere "animal spirits" di Nomura dei più grandi nomi di ETF con leva finanziaria è ora in calo del 22% rispetto ai massimi di dicembre, secondo McElligott. Tale deleveraging si vede anche nei titoli tecnologici megacap.


Per chiudere il nostro Post, abbiamo giudicato utile riproporre un articolo del Corriere della Sera, dove trovate la risposta alla domanda “che cosa ci ha portati a questo punto?”.

Ovviamente, ci è necessario spostare il focus: dalle Borse, ritorniamo alla geopolitica.

Dopo che avrete letto, avrete tutto chiaro davanti agli occhi.

Dovrete solo decidervi, sul come impiegare i vostri risparmi, nel contesto che Recce’d vi ha qui descritto: la Nuova Era, il Nuovo Paradigma.

La sintesi estrema dell’articolo, la leggete nell’immagine che segue.


L’America di Donald Trump ha un tallone d’Achille

È sotto gli occhi di tutti, eppure viene discusso di rado. È la ragione di fondo che spinge il presidente a cercare di intimidire gli altri Paesi – alleati o no – con minacce e misure sui dazi. È anche la ragione che lo spinge ad accelerare sulle monete digitali, non solo e non tanto le criptovalute ma soprattutto gli stablecoin (le «valute» digitali private sostenute da depositi, per lo più in dollari, di valore equivalente). 

Le due strategie insieme convergono in un assalto all’Europa e all’euro e contribuiscono a spiegare molte delle mosse dell’amministrazione americana. 

Lo so che suona come fantapolitica, ma non dovete credere a me: è tutto negli ordini esecutivi e nelle dichiarazioni ufficiali dell’amministrazione americana delle ultime settimane. Oggi cercherò dunque di unire i puntini per mostrare una tendenza di fondo: la sua stessa vulnerabilità sta spingendo Trump verso un attacco alla sovranità europea. Alcuni dei principali responsabili di politica economica nell’area euro per fortuna ne sono consapevoli. La speranza è che il sistema politico europeo reagisca, perché ne ha gli strumenti: a cominciare dal progetto dell’euro digitale. Vediamo perché.

La promessa sulle tasse

Qual è il tallone d’Achille di Trump? Esso è prodotto dall’enorme e crescente deficit pubblico, che obbliga gli Stati Uniti a trovare ogni anno compratori di titoli del Tesoro per almeno duemila miliardi dollari in più – rispetto all’anno precedente – sperando di non dover aumentare gli interessi offerti per attrarre investimenti. 

Se Trump fallisse in questa missione, se non riuscisse a contenere il peso del debito pubblico e ad assicurarne il finanziamento senza problemi, allora sarebbe destinato a fallire anche nella sua promessa più importante agli elettori: confermare nel 2026 i tagli alle tasse per le imprese già varati nel suo primo mandato (dal 35% al 21%) e di rafforzarli fino al 15%.

Qui entriamo in gioco noi europei, in due modi. In primo luogo, perché agitare la minaccia di dazi punitivi per Trump e la sua squadra è un sistema volto a obbligare altri Paesi a comprare e detenere più titoli di Stato americani; in questo modo gli Stati Uniti potrebbero finanziare il loro crescente deficit pubblico, tenendo sotto controllo i tassi d’interesse sul debito. 

In sostanza, Trump sta cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare più debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.

In secondo luogo, noi europei siamo chiamati in causa perché gli «stablecoin» emessi in America potrebbero diventare mezzi di pagamento alternativi all’euro in Italia e negli altri Paesi dell’area; già solo attuare il progetto di soppiantare in parte l’euro in Europa con degli «stablecoin» americani – in sostanza, con dollari digitali – aiuterebbe non di poco sempre allo stesso scopo: finanziare i vasti e crescenti squilibri finanziari del governo degli Stati Uniti.

Fin qui, non lo nego, suona tutto come teoria del complotto. Starete pensando che io sia leggermente paranoico. Può darsi. Ma da ora in poi parlerò dei dati, delle dichiarazioni e dei documenti ufficiali che – in modo diretto – danno sostanza alla mia interpretazione.

Duemila miliardi solo nel 2024

Il problema di Trump è che il deficit federale americano è tale da creare un fabbisogno di dimensioni eccessive non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo. Secondo i dati della Federal Reserve di St Louis, il disavanzo del governo nel 2024 è al 6,3% del prodotto lordo e il debito al 120,7%. Entrambi cresceranno nei prossimi anni, anche più rapidamente Trump confermerà e rafforzerà i tagli fiscali in scadenza dal 2026. Ma questi numeri in sé a priori non sono insostenibili; il Giappone ha gestito per decenni deficit simili e un debito pubblico più alto di quello americano. Ciò che rende l’America speciale sono le sue dimensioni: con un prodotto lordo di oltre 29 mila miliardi di dollari nel 2024, pesa per il 27% di un Pil della Terra da circa 109 mila miliardi.

Ora, il fabbisogno di finanziamento del deficit e dunque i titoli in più che ogni anno il Tesoro di Washington deve piazzare a investitori pubblici e privati, sono una somma molto vasta per il mondo: come si vede dai dati ufficiali, 1.958 miliardi di dollari solo nel 2024, pari all’1,8% del Pil mondiale. E quelle sono solo le nuove emissioni nette, che si sommano ai 40 mila miliardi di dollari di debito – poco meno di metà del Pil del mondo, grafico sopra – già presenti nei portafogli di privati, fondi, banche e banche centrali del pianeta e da rinnovare in parte ogni anno (il dato qui include il debito di agenzie garantite dal governo come Fannie Mae e Freddie Mac).

Quei duemila miliardi l’anno in più che il Tesoro americano deve attrarre da nuovi investitori ogni anno, si sommano al nuovo debito delle agenzie semi-pubbliche e ai piani di tagli alle tasse destinati a costare altre centinaia di miliardi l’anno. 

In sostanza, il governo americano deve rastrellare ogni anno quasi tremila miliardi di dollari in più dal mercato mondiale e dalle banche centrali degli altri Paesi. E deve farlo agli attuali rendimenti. Se quelli salissero, i tassi sul debito pubblico e privato in America diventerebbero pesanti; il Paese rischierebbe una grave recessione, con conseguenze potenzialmente deleterie per il dollaro, per il suo status di grande moneta di riserva del mondo e per un mercato azionario di Wall Street già oggi molto fragile e squilibrato.

Ma tremila miliardi di nuovi titoli pubblici e semi-pubblici di Washington da piazzare in più ogni anno non sono uno scherzo. Sono quasi pari alla crescita economica netta del mondo in un anno, che è intorno al 3%: come dire che quasi tutti i nuovi flussi di risparmio di quasi tutti i Paesi del pianeta dovrebbero essere reclutati e andare – ogni anno – a finanziare il maxi-deficit americano. Così, Trump sarebbe libero di tagliare ancora di più le tasse alle multinazionali del suo Paese e agli americani facoltosi. Com’è noto gli uomini più ricchi al mondo – Elon Musk, Mark Zuckerberg di Meta-Facebook, Jeff Bezos di Amazon – praticamente già oggi non pagano tasse sui redditi personali e anche le loro aziende ne pagano relativamente poche. Anzi, Trump sta già ingiungendo ai Paesi europei di rinunciare agli accordi internazionali in sede Ocse che aumentano un po’ il prelievo sui gruppi americani del Big Tech.

Coercizione

Ma è credibile che la Cina continui a finanziare il nuovo e crescente deficit pubblico del suo grande rivale – Pechino detiene titoli Usa già per quasi 800 miliardi – in modo da permettergli di continuare a vivere sopra ai propri mezzi e intanto di rafforzare anche la propria difesa? 
È credibile che lo faccia il Giappone – detiene già almeno 1.100 miliardi di debito Usa – quando ha ben altre priorità interne? 
È plausibile che lo faccia l’area euro, rischiando di subire i costi di una probabile svalutazione futura del dollaro proprio a causa degli squilibri americani? 

Nessuna delle grandi banche centrali del pianeta in questa fase vorrà incrementare di molto la propria esposizione netta verso il debito degli Stati Uniti. Non spontaneamente, per lo meno. Di qui la strategia di Trump e dei suoi di farglielo fare con la coercizione.

Il «Piano Miran»

Come faccio a dirlo? Perché lo dicono loro. Lo scrive il nuovo presidente del Council of Economic Advisors della Casa Bianca, Stephen Miran

Miran, ricorda Federico Rampini, è uno degli uomini più vicini al presidente e più influenti nella strategia dei dazi. Dottorato a Harvard, una carriera da grande investitore a Hudson Bay Capital, vicino al segretario al Tesoro Scott Bessent, Miran ha pubblicato un lungo documento di strategia per la nuova amministrazione dopo il trionfo di Trump in novembre. Lì si pone il problema di conciliare tre obiettivi complicati da tenere insieme:

trovare i finanziatori per quasi cinquemila miliardi di dollari di nuovo debito in più (da tagli alle tasse) nei prossimi dieci anni, oltre ai duemila in più all’anno già previsti; svalutare il dollaro in modo che l’America riesca a vendere più merci al resto del mondo, comprandone meno da esso; mantenere contenuti i rendimenti sul debito e dunque tassi d’interesse di mercato americani, preservando lo status del dollaro quale moneta di riserva dominante del mondo.

Dov’è la contraddizione? Gli investitori esteri accetterebbero di comprare debito americano in dollari a rischio di svalutazione, finanziando il nuovo enorme deficit federale, solo a rendimenti (tassi) più alti. Miran la risolve proponendo di minacciare gli altri Paesi: «È più facile immaginare che dopo una serie di dazi punitivi, partner commerciali come l’Europa e la Cina diventino più aperti a qualche tipo di accordo monetario in cambio di una riduzione dei dazi stessi». E ancora: «Ogni accordo dovrebbe incorporare un’intesa sulle scadenze», cioè gli altri governi e banche centrali dovrebbero impegnarsi a comprare titoli americani a lungo termine più instabili e rischiosi – Miran propone titoli a scadenza di un secolo, a tassi contenuti – per poter evitare guerre commerciali da parte di Trump e il ritiro della tutela di difesa americana. Miran parla di «zone di sicurezza e i Paesi al loro interno le devono finanziare comprando titoli del Tesoro americano (…) titoli a scadenza fra un secolo (…): se non scambi titoli a breve con titoli a lunga scadenza, i dazi ti terranno fuori». 

Miran spiega l’insistenza sull’obbligo fatto all’Europa o alla Cina di comprare titoli Usa a lungo termine, «spostando il rischio (del debito degli Stati Uniti, ndr) dal contribuente americano ai contribuenti stranieri», con l’intenzione di tenere bassi i tassi di mercato in America. E aggiunge: «Come possono gli Stati Uniti far sì che i loro partner accettino un tale accordo? Primo, c’è il bastone dei dazi. Secondo, c’è la carota dell’ombrello di difesa e il rischio di perderlo».

Se questo non è il disegno di un ricatto, non so come altrimenti definirlo. L’obiettivo è una parziale confisca delle riserve dell’Europa, in modo da far pagare a noi una quota del debito americano tramite una svalutazione del dollaro e tramite rendimenti insufficienti sui titoli del Tesoro Usa. Miran si spinge a proporre di usare dei poteri speciali della Casa Bianca per tagliare la cedola sui bond americani ai danni delle banche centrali estere che non accettino di rivalutare la loro moneta sul biglietto verde. Di fatto, un default punitivo. Sulla base di queste idee, Miran è diventato il capo del Council of Economic Advisors di Trump.

Euro digitale o stablecoin

Ma non è tutto, perché anche le mosse di Trump sugli stablecoin sono volte a coprire il tallone d’Achille dell’America. Il 23 gennaio il presidente ha firmato un ordine esecutivo che prevede: «Promuovere e proteggere la sovranità del dollaro americano, anche con azioni volte a promuovere lo sviluppo e la crescita di legali e legittimi stablecoin basati sul dollaro in tutto il mondo (worldwide)». I lavori per assicurare la relativa legislazione entro cento giorno sono già partiti al Congresso.

Di che si tratta? Uno stablecoin basato sul dollaro è un mezzo di pagamento digitale – utilizzabile tramite una app sullo smartphone – al quale corrispondono depositi in dollari gestiti dall’emittente della «moneta». In teoria, i depositi devono consentire all’utilizzatore di cambiare i suoi stablecoin in dollari presso la piattaforma a un tasso (appunto) stabile. All’aumentare dell’uso degli stablecoin, corrisponde un aumento dei depositi in dollari da parte della piattaforma emittente e questi depositi vengono investiti dall’emittente quasi tutti in titoli del Tesoro americano. 

Dunque, aumentare l’uso di questo tipo di bitcoin «in tutto il mondo» (inclusa la zona euro) significa aumentare i depositi in dollari a scapito dei depositi in altre valute (incluso l’euro). Questi depositi, come detto, vanno a finanziare il debito americano. Ha dichiarato il 4 febbraio lo «special advisor» dell’amministrazione Trump per le cripto, David Sacks: «Gli stablecoin hanno il potenziale di assicurare che il dominio internazionale del dollaro americano aumenti e di creare potenzialmente migliaia di miliardi di dollari di domanda per i titoli di Stato americani». Esempi di stablecoin basate sul dollaro sono Tether, che capitalizza 142 miliardi di dollari ed è gestita da Giancarlo Devasini (l’uomo che ha appena comprato una quota della Juventus); o Circle (56 miliardi). Già oggi detengono tanto debito Usa quanto alcune fra le principali banche centrali del mondo, come si vede sopra.

Come funziona? Questa «moneta» digitale potrebbe offrire a un ristorante o a qualcuno che affitta su AirB&B commissioni più basse rispetto a Mastercard o a Amex. Potrebbe fare accordi con reti di noleggio auto per promettere sconti se si paga con un certo stablecoin. Così alcuni – magari dapprima i turisti – inizierebbero a usarlo in Europa al posto dell’euro in Italia, Francia o Germania, spostando depositi dall’euro al dollaro e finanziando dunque il debito americano.

Ci sono anche conflitti d’interessi, certo. Howard Lutnick, segretario al Commercio di Trump, controlla la grande piattaforma di valute digitali Cantor Fitzgerald e ha il 5% di Tether. Elon Musk, cinque giorni dopo l’ordine esecutivo sugli stablecoin, ha annunciato un accordo con Visa per permettere pagamenti digitali tramite il suo social media X (ex Twitter).

La sostanza resta: questa è una sfida allo status di moneta di riserva dell’euro portata in casa nostra, per coprire il finanziamento degli squilibri americani. L’Europa può rispondere solo accelerando il lancio di un proprio mezzo di pagamento elettronico senza costi, l’euro digitale: le norme per farlo sono ferme nell’europarlamento da quasi due anni, ma ora il tempo stringe.

Resto convinto che il disegno di Trump di coercizione economica sul resto del mondo difficilmente possa funzionare. Sembra un presagio di declino americano, non d’impero. L’esito più probabile è una svalutazione non pilotata del dollaro, un aumento degli interessi sul debito degli Stati Uniti e una coercizione sulla Federal Reserve perché lo monetizzi. Ma non per questo noi europei dobbiamo restare a guardare, mentre qualcuno cerca di sfilarci la nostra sovranità monetaria da sotto il naso.

Valter Buffo