Brrrrr ... che tarantella!
Succederà ancora. E si ripeterà ancora. Fin dalla settimana prossima, in vista della prossima riunione del Consiglio della Federal Reserve.
Sui mercati finanziari, si tornerà presto al dibattito sul “soft landing”, sul “prossimo ribasso dei tassi ufficiali”, su quella “immacolata deflazione” alla quale proprio qui nel Blog noi di Recce’d abbiamo dedicato un intero Post qualche settimana fa.
Si ripeterà per la ragione che è in corso uno scontro: non un battaglia, piuttosto una vera e propria guerra.
Una parte del settore del risparmio (banche e Reti di vendita) combatte mettendo in campo tutte le proprie forze per convincere una parte del pubblico che tutto ritornerà come era prima.
La parte del settore del risparmio (banche e Reti di vendita) che punta sul “ritorno ai bei tempi andati” non ha altre vie di uscita: tutta quella parte del sistema si regge unicamente un un contesto di tassi a zero, easy money e “bolla di tutto con tutto che sale”. Per tutti questi signori, il ritorno al passato è una questione di sopravvivenza: non sanno fare altro.
Il nostro parere, o meglio la nostra visione, come i lettori più attenti sanno, è che non succederà mai: non è possibile che tutto ritorni come prima, ed in numerose occasioni Recce’d ha evidenziato i dati di fatto che supportano questa nostra forte convinzione.
I lettori conoscono la nostra visione delle cose: in questo Post, la mettiamo a confronto con una visione diversa, che ci arriva da uno dei più noti commentatori, ex Governatore alla Federal Reserve di New York, che in un recentissimo articolo illustra le ragioni per cui è del tutto sbagliato pensare che attraverso la creazione di moneta (e, aggiunge Recce’d: anche i tassi di interesse) si possa governare l’economia e determinare la crescita del PIL, l’inflazione e la disoccupazione.
E se ve lo dice un ex Governatore della Federal Reserve …
Bill Dudley, editorialista di Bloomberg Opinion e consulente senior di Bloomberg Economics, è ricercatore senior presso il Center for Economic Policy Studies dell'Università di Princeton. È stato presidente della Federal Reserve Bank di New York dal 2009 al 2018 e vicepresidente del Federal Open Market Committee. In precedenza è stato capo economista statunitense presso Goldman Sachs.
I meme su Internet e gli opinionisti spesso mostrano una specifica concezione del funzionamento dell'economia statunitense: il volume di denaro è la determinante più importante della produzione e dei prezzi.
Seguendo la loro logica, l'espansione pandemica dell'offerta di moneta da parte della Federal Reserve ha causato l'inflazione odierna, e la sua attuale contrazione schiaccerà rapidamente l'inflazione e scatenerà una recessione.
Se solo il lavoro della Fed fosse così semplice. Questo modo di pensare è sbagliato, in almeno due modi.
In primo luogo, l'offerta di moneta è solo uno dei tanti fattori che influenzano l'economia statunitense e il suo legame con i risultati effettivi è sempre stato molto tenue. Anche la disponibilità delle persone a prendere in prestito e la disponibilità delle istituzioni finanziarie a concedere prestiti hanno la loro importanza. La circolazione del denaro - la sua velocità - dipende dalle azioni di una vasta gamma di intermediari finanziari e dei loro clienti, di cui le banche sono solo una piccola parte.
Tutto questo si riflette nella famosa equazione MV=PQ, dove M è la moneta, V è la velocità e P e Q sono il prezzo e la quantità della produzione economica. Conoscere M non aiuta molto a prevedere P o Q, perché V è molto variabile.
La Fed ha preso di mira l'offerta di moneta solo una volta, durante la battaglia di Paul Volcker contro l'inflazione dal 1979 al 1982. Anche in quel caso, la motivazione era principalmente politica: l'imperativo di rallentare la crescita della massa monetaria fornì a Volcker la copertura per spingere i tassi di interesse a livelli precedentemente insondabili. Una volta sconfitta l'inflazione, la Fed abbandonò rapidamente l'offerta di moneta come obiettivo.
In secondo luogo, la conduzione della politica monetaria da parte della Fed è cambiata radicalmente nel 2008, quando il Congresso le ha concesso il potere di pagare gli interessi sulle riserve che le banche mantengono presso la banca centrale. Questa mossa ha interrotto il legame tra l'ammontare delle riserve bancarie, che è il fattore chiave dell'offerta di moneta, e il prezzo del credito. Se, ad esempio, la Fed fissa il tasso sulle riserve al 5%, le banche non hanno motivo di concedere prestiti a un prezzo inferiore, indipendentemente dalla quantità di riserve di cui dispongono.
Questo è il motivo per cui l'inflazione non si è impennata durante i programmi di quantitative easing della Fed dal 2009 al 2014 e dal 2020 al 2021, anche se le riserve bancarie e la crescita della massa monetaria hanno raggiunto un picco rispettivamente di oltre 4.000 miliardi di dollari e del 26,9%.
La maggior parte del denaro è rimasta lì: nonostante un eccesso di depositi che ha raggiunto circa 18.000 miliardi di dollari, il totale dei prestiti e dei leasing bancari è sceso da un picco di 10.900 miliardi di dollari nel maggio 2020 a 10.400 miliardi di dollari un anno dopo.
Il fatto che le banche siano ricche di riserve e liquidità attenuerà gli effetti della stretta quantitativa della Fed. Uno dei motivi per cui sono state così lente ad aumentare i tassi di interesse sui depositi dei clienti è che non hanno bisogno di attrarre più denaro per finanziare i loro prestiti.
Da dove viene l'inflazione? L'economia si è surriscaldata per diverse ragioni:
Lo spostamento della composizione della domanda verso i beni durante le prime fasi della pandemia ha portato a un blocco della catena di approvvigionamento,
lo stimolo fiscale ha aumentato la capacità di spesa e la Fed ha mantenuto i tassi di interesse troppo bassi per troppo tempo.
Se i tassi fossero stati considerevolmente più alti, prima, l'economia sarebbe cresciuta più lentamente, il mercato del lavoro non sarebbe stato così rigido e l'inflazione dei salari e dei prezzi sarebbe stata più bassa.
E che dire del quantitative easing? Non ha avuto alcun effetto? Certamente ha avuto un ruolo nel rendere la politica monetaria più stimolante, facendo scendere i rendimenti obbligazionari e i tassi ipotecari, ma il suo contributo all'inflazione è decisamente esagerato. La maggior parte delle riserve e dei depositi che ha creato è rimasta nei bilanci del sistema bancario e non è stata prestata.
Allo stesso modo, l'impatto dell'inasprimento quantitativo sarà molto più modesto di quanto possa far pensare la riduzione delle riserve bancarie e della massa monetaria.
Ciò che conta davvero è il livello dei tassi di interesse a breve termine (quanto alti per quanto tempo), il loro impatto sulle condizioni finanziarie e il modo in cui questo influisce sulla disponibilità a prendere in prestito e a spendere.
Il messaggio che si ricava dall’articolo di Dudley è chiaro: ci dice che è esagerato attribuire l’inflazione esclusivamente alla crescita della massa monetaria ed alle riserve bancarie e su questo noi in Recce’d siamo d’accordo: l’inflazione è nata, e viene alimentata, anche da altri fattori (citati nell’articolo).
Ci sono però altre cose importanti, in questo articolo, con le quali Recce’d si trova in disaccordo (e i nostri portafogli modello lo dimostrano in modo concreto).
Non è questa la sede nella quale noi di Recce’d possiamo esporre nel dettaglio le nostre analisi e per questo ci limitiamo ad alcune osservazioni sintetiche:
scrive Dudley che Il fatto che le banche siano ricche di riserve e liquidità attenuerà gli effetti della stretta quantitativa della Fed. Uno dei motivi per cui sono state così lente ad aumentare i tassi di interesse sui depositi dei clienti è che non hanno bisogno di attrarre più denaro per finanziare i loro prestiti.; e quindi, in modo implicito, Dudley riconosce che la liquidità abbondante (eccessiva) ha giocato, e gioca tutt’ora un ruolo importante, e riconosce che oggi la liquidità sostiene l’economia, e quindi riconosce anche che la liquidità eccessiva a tutto oggi alimenta l’inflazione
scrive Dudley che non è la creazione di moneta a guidare l’economia: ma si ferma a quel punto, e non procede poi nella spiegazione del perché si è fatto ricorso a una enorme creazione di liquidità: per raggiungere quali obbiettivi?
infine, Dudley scrive che Ciò che conta davvero è il livello dei tassi di interesse a breve termine (quanto alti per quanto tempo), il loro impatto sulle condizioni finanziarie e qui a nostro parere Dudley perde completamente il filo del discorso: che senso ha fare riferimento alle “condizioni finanziarie” e poi negare l’importanza del QE e della liquidità? Dudley qui va in confusione.
Queste tre contraddizioni, che a noi sembrano evidenti, sono una conferma del fatto che è impossibile ritornare alla situazione (dei mercati e delle economie) che tutti abbiamo conosciuto negli anni 2009 - 2021
Queste tre contraddizioni, però, non privano di interesse l’articolo di Dudley: che a voi e a tutti gli investitori serve per collocare nel contesto più appropriato il ricorrente dibattito sul “soft landing”, di cui abbiamo scritto in apertura, e che riprenderà già la settimana prossima.
La lettura di questo articolo per voi sarà utile ogni volta che leggerete, nei prossimi giorni, commenti e pareri sul tema “0,25% oppure 0,50%” ed argomentazioni che riguardano “il tasso terminale”.
Recce’d ha già chiarito che, a nostro giudizio, la prima questione (0,25% oppure 0,50%) è totalmente irrilevante, sia per ciò che riguarda l’andamento dell’inflazione e dell’economia, sia per ciò che riguarda la gestione del portafoglio titoli.
La seconda questione (fino a quale livello arriveranno i tassi ufficiali di interesse) è una questione puramente teorica, un gioco mentale: non ha la minima utilità pratica esercitarsi oggi con questo tipo di previsioni, dato il fatto che NESSUNO (non la Federal Reserve, non la BCE, non Goldman Sachs o JP Morgan, e nessun “esperto”) oggi ha la minima idea di quale sarà l’evoluzione dell’inflazione nel 2023.
Il fatto che oggi una grande parte degli argomenti che ascoltiamo e leggiamo sia favorevole a una discesa (più o meno veloce) dell’inflazione è molto semplicemente “la strada più comoda”, ovvero una forma di pigrizia mentale. Fa comodo, fa piacere immagine che “il problema rientrerà da solo”, ma oggi nel mese di marzo 2023 non esiste un solo indizio concreto di una discesa dell’inflazione dai livelli attuali.
Abbiamo visto in alcuni mesi un calo degli indici dai livelli massimi, ma si tratta di dati del tutto irrilevanti: non indicano una tendenza di medio termine, e nei prossimi mesi vedremo ancora in alcuni mesi un calo ed in altri mesi un aumento. Come spiega, molto chiaramente, l’articolo del Wall Street Journal che abbiamo selezionato e tradotto per voi.
Articolo che vi aiuterà a capire bene che cosa succede, non appena ripartirà la tarantella del “soft landing” e della “immacolata disinflazione”.
La Federal Reserve ha ripetuto più volte che risponde ai dati e non fissa i tassi di interesse con il pilota automatico. I dati sono cambiati radicalmente. La Fed dovrebbe dimostrare di essere convinta di ciò che dice, passando da un aumento di 25 punti base alla prossima riunione a un aumento di 50 punti. Dovrebbe anche spostare le aspettative verso un tasso terminale di circa il 6%.
La Fed non dovrebbe mai reagire in modo eccessivo a un singolo dato, ma quando il tasso annualizzato di inflazione core a tre mesi balza dal 2,9% al 4,7%, la banca centrale deve prenderne atto. Quando ciò accade dopo i forti dati sull'occupazione e l'accelerazione della crescita dei salari, la Fed deve pianificare un'azione. L'aspettativa che l'inflazione si dissolva da sola è sempre stata ingiustificata, ma i dati economici più recenti sono stati particolarmente scortesi nei confronti del team transitorio.
Una linea d'azione più aggressiva non sarebbe una reazione eccessiva ai dati volatili di gennaio, che probabilmente sono stati influenzati da un clima insolitamente caldo e da stranezze stagionali. Se la Fed credesse che i dati di gennaio - che hanno mostrato 517.000 posti di lavoro aggiunti, un aumento del 14% su base annua della spesa per consumi corretta per l'inflazione e un'inflazione di fondo del 7% su base annua - fossero la vera tendenza di fondo, allora dovrebbe alzare i tassi nella prossima riunione di 250 punti base, invece di aumentare il percorso di 50 punti. Invece, anche escludendo i dati di gennaio, le revisioni sfavorevoli degli ultimi mesi del 2022 dovrebbero modificare la percezione dell'economia.
Ciò che rende l'inflazione attuale particolarmente preoccupante è che tutti i “salvatori” sperati sono arrivati e se ne sono andati senza ridurre di molto l'inflazione sottostante. L'inflazione sarebbe dovuta scomparire quando gli effetti base si fossero ridotti, quando l'economia avesse superato le impennate di Delta e Omicron, quando i porti fossero stati sbloccati, quando i prezzi del legname fossero scesi, quando lo stimolo fiscale si fosse esaurito, quando fossero stati disponibili i microchip, quando i prezzi dell'energia fossero tornati a scendere dopo l'invasione russa. Tutto questo è accaduto, eppure il tasso di inflazione sottostante rimane superiore al 4,5% su quasi tutti gli orizzonti temporali e su tutte le misure.
L'unica notizia a cui gli ottimisti possono ancora aggrapparsi è che il rallentamento degli affitti dei nuovi contratti di locazione si manifesterà, con un certo ritardo, in un rallentamento dell'inflazione degli alloggi. Ma questo fattore probabilmente vale meno di un punto percentuale in meno rispetto al tasso d'inflazione e potrebbe essere compensato da altri fattori che vanno nella direzione opposta.
Fondamentalmente, gran parte dell'inflazione di fondo dell'economia non ha nulla a che fare con effetti base, microchip o prezzi del legname. È il prodotto di mercati del lavoro estremamente rigidi che hanno portato a rapidi aumenti salariali che si sono tradotti in un aumento dei prezzi. Questi prezzi più alti hanno portato anche ad aumenti salariali più rapidi. Alcuni la chiamano "spirale salari-prezzi", ma un termine migliore è "persistenza dei prezzi salariali", perché l'inflazione rimane alta anche dopo che l'impennata della domanda è scomparsa.
Attualmente la crescita dei salari è di circa il 5% annuo. Sostenere una tale crescita salariale con un'inflazione del 2% richiederebbe un forte aumento della crescita della produttività o un continuo calo dei margini di profitto. Farei il tifo per uno dei due risultati, ma non ci scommetterei. Un calo della crescita salariale potrebbe far scendere l'inflazione, ma in un'economia con quasi due posti di lavoro disponibili per ogni persona in cerca di occupazione, non aspettatevi che ciò accada. Il risultato più probabile è invece che, se il tasso di disoccupazione non aumenta, i salari continueranno a crescere a quel ritmo, che storicamente è associato a un'inflazione del 4% circa.
La politica monetaria opera con ritardi lunghi e variabili. Dato che la maggior parte dell'inasprimento delle condizioni finanziarie era già in atto 10 mesi fa e che, semmai, l'economia reale e la domanda si sono rafforzate negli ultimi mesi, sarebbe sciocco sedersi ad aspettare che la medicina faccia effetto. In effetti, i ritardi sono proprio il motivo per cui la Fed dovrebbe fare di più ora, considerando che ci vorranno mesi prima che qualsiasi azione della banca centrale abbia un effetto significativo sull'inflazione.
Troppi analisti si sono concentrati su ciò che è possibile per l'economia piuttosto che su ciò che è probabile. Sì, un atterraggio morbido è ancora possibile, ma rimane improbabile. Dal suo discorso di Jackson Hole in agosto, il presidente della Fed Jerome Powell si è concentrato molto di più su ciò che è probabile, avvertendo che la lotta all'inflazione sarà lunga e difficile. Non è necessario che la Fed cambi la sua politica. Dovrebbe invece continuare a seguire il suo approccio dipendente dai dati e, in assenza di una svolta molto favorevole nei dati, aumentare i tassi di altri 50 punti base alla prossima riunione.
Furman, professore di pratica della politica economica ad Harvard, è stato presidente del Consiglio dei consiglieri economici della Casa Bianca dal 2013 al 17.