Detox. TACO e perché leggere Ernest Hemingway
Ci sono quelli che sanno.
I promotori finanziari, ad esempio. Loro vengono a casa vostra a inizio anno, vi danno il nuovo bigliettino da visita (private banker, wealth manager, financial advisor, eccetera) e poi vi spiegano. E il discorso inizia sempre più o meno allo stesso modo:
“… e noi crediamo che quest’anno le obbligazioni … e poi le Borse … e poi il dollaro …”
La guerra tra USA ed IRAN? Sei mesi fa, tutti ci dicevano che “per il 2025 si possono escludere nuovi conflitti di portata internazionale”. Loro, i promotori di prodotti finanziari, a voi dicono sempre che “tutto va bene”.
Il loro scopo è di compiacere la massa, rassicurarla a parole, anche a proposito di quei temi dei quali il promotore finanziario capisce assolutamente nulla. Loro voglio unicamente farvi mettere in portafoglio Fondi Comuni, GPM e polizze.
Anche adesso, anche il 21 giugno 2025, i “promotori finanziari pagati con le retrocessioni sui Fondi, GPM e polizze” sono tutti al lavoro per convincere la massa degli investitori di un’unica cosa: “non può succedere mai nulla, non c’è motivo di preoccuparsi; e poi, anche se succedesse … poi tanto tutti si riprenderà … e quindi, compera i nostri Fondi Comuni, le GPM, le polizze”.
Tutta questa cosa è ridicola, e da più di un punto di vista. E’ sufficiente guardare ai fatti e leggere i quotidiani di stamattina, per avere conferma. Quello del vostro promotore finanziario non è il modo di lavorare, è solo una tecnica per vendere. Vendere ha nulla a che vedere con gli investimenti e con il risparmio.
Quello dei promotori non è il modo di investire, non è il modo in cui si lavora per ottimizzare il portafoglio del Cliente. Cosa evidente alla luce della guerra in corso. Ma non solo: pensate anche alla Federal Reserve, che ha parlato mercoledì sera 18 giugno. Loro, alla Federal Reserve, aggiornano le loro previsioni ogni settimana. E poi comunicano i loro aggiornamenti attraverso conferenze stampa, attraverso le interviste, ed una volta al mese dopo le loro riunioni del Board.
Loro aggiornano con continuità le loro previsioni: questo è il modo di lavorare. E il vostro promotore finanziario invece a gennaio vi racconta dove vanno i mercati finanziari per tutto l’anno? Lui vede avanti di 12 mesi e la Federal Reserve no?
Con il Cliente, Recce’d non ha un atteggiamento così tanto arrogante, e non vende false sicurezze.
Recce’d fa l’opposto: ogni mattina, Recce’d è in contatto con il proprio Cliente, e spiega come vanno rettificate le previsioni, e quindi come cambiano le prospettive per gli asset finanziari nei portafogli modello. Comunica i nuovi rendimenti attesi, ed i nuovi rischi di ribasso e/o perdita su ogni singolo strumento finanziario del nostro universo investibile.
Questo è il modo di lavorare: così si colgono le occasioni che il mercato offre a noi investitori.
Se invece vi affidate a chi vi racconta che “non succederà mai nulla”, allora finirete a perder e parte del vostro denaro, a causa di vostre mosse sbagliate e comunque ritardate rispetto alla realtà (che non riuscite più a comprendere.
Recce’d, in particolare con la serie di Post Detox del 2025, ha voluto concretamente aiutare i propri lettori nella gestione del portafoglio, chiarendo e documentando che anche nel giugno 2025 la guerra NON è il fattore di maggiore peso, per i mercati finanziari, e NON è il fattore decisovo, per la performance dei vostri portafogli titoli.
Molti lettori, distratti dai TG, dai GR, dai social e dai quotidiani, oggi faticano a comprendere ciò che accade proprio sotto i loro occhi: e dimenticano, ad esempio, che per la gestione del loro risparmio i dati del grafico che segue sono più importanti, dell’attacco militare all’IRAN.
E dimenticano, sempre a proposito del grafico, che è proprio da questo che dipende la performance (positiva, oppure negativa) dei loro investimenti finanziari.
Molti investitori, che fanno parte della massa, i dati di questo grafico neppure li conoscono.
Per chi invece già li conosce, potrebbe essere utile rivederli organizzato in modo diverso: nel grafico vedete i dati medi del deficit pubblico USA, calcolati per ognuno dei 4 anni delle diverse Presidenze degli Stati Uniti.
Quale sarà, secondo voi, il dato relativo alla seconda Presidenza Trump, che è in corso? Dalla risposta a questa domanda, potete ricavare una previsione più accurata per i futuri rendimenti dei vostri BTp, in generale dei Titoli di Stato, delle altre obbligazioni, e poi delle valute e poi delle azioni ed anche delle principali materie prime. Quindi, esaminate il grafico con attenzione: vi sarà utile.
Ovviamente, per comprendere nel modo migliore le informazioni che ci vengono fornite dal grafico precedente, occore un lavoro accurato di analisi.
Ovviamente, il lavoro che noi ogni giorno facciamo per i Clienti di Recce’d parte proprio da qui.
In che modo il nostro lettore può ricavare un profitto dalla lettura dei dati che abbiamo visto nelle due immagini?
Oggi con il nostro Post vi proponiamo un percorso lungo tre tappe:
partiremo dalla recente evoluzione della geopolitica, come ci viene imposto dall’attualità di questi giorni
proseguiremo collegando l’attualità del 2025 ai temi del debito (quello delle due immagini) e anche alla Borsa
poi, restringendo l’orizzonte temporale, esamineremo le reazioni dei mercati finanziari ai fatti recenti descritti alla prima delle nostre quattro tappe
Prima di iniziare questo nostro percorso preparato per voi, una piccola digressione: ritorniamo a TACO.
Tutto il 2025, per ciò che riguarda Trump, è stato caratterizzato da un diluvio di annunci, roboanti ed urlati, a cui poi è seguita una caotica marcia all’indietro. La settimana appena conclusa ha visto Trump annunciare (niente di meno) una dichiarazione di guerra all’IRAN, seguita da una quasi immediata retromarcia, come leggete qui sotto.
Il presidente Donald Trump ha nuovamente fissato un termine di due settimane per decidere su una questione complessa: questa volta se gli Stati Uniti debbano lanciare un attacco contro l'Iran.
La scadenza mira a fare pressione su Teheran affinché si sieda al tavolo delle trattative per un accordo nucleare, mentre l'escalation del conflitto tra Israele e Iran entra nella sua seconda settimana.
La diplomazia prima di tutto: "Dato che ci sono concrete possibilità che i negoziati con l'Iran possano svolgersi o meno nel prossimo futuro, prenderò la mia decisione se procedere o meno entro le prossime due settimane", ha dichiarato Trump in un messaggio consegnato dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. La scadenza giunge mentre Israele e Iran continuano a scambiarsi attacchi aerei, prendendo di mira siti militari e nucleari, nonché infrastrutture civili.
I ministri degli Esteri di Regno Unito, Francia, Germania e UE incontreranno la loro controparte iraniana a Ginevra venerdì per discutere della situazione. "Il presidente sostiene gli sforzi diplomatici dei nostri alleati che potrebbero avvicinare l'Iran alla conclusione del suo accordo", ha dichiarato un funzionario della Casa Bianca. Mentre proseguono gli sforzi diplomatici, la valutazione di Trump di un possibile attacco all'Iran ha diviso la sua base di sostegno negli Stati Uniti, poiché molti alleati vogliono evitare che si ripeta l'invasione dell'Iraq del 2003.
Di fronte a rapidissimi cambiamenti di posizione dei più grandi leader del Mondo, è bene che tutti noi investitori adottiamo un atteggiamento che unisce pazienza, umiltà ed estrema attenzione.
Non siamo noi, gli investitori finali (famiglie ed Aziende non finanziarie), a determinare gli eventi della realtà. Il nostro compito, in quanto investitori, è di comprenderli, analizzarli, e poi approfittarne per il nostro risparmio.
Non dobbiamo essere ottimisti, e neppure pessimisti. Non dobbiamo essere schierati a favore di questo, oppure di quello. E’ contro il nostro stesso interesse.
Noi investitori non dobbiamo affidarci a visioni “messianiche”: non quelle di Khamenei, e neppure quelle di Trump, non quelle di Elon Musk su AI e “lo tsunami” e neppure quelle di chi vede imminente “la fine del Mondo”.
Noi invece, in quanto investitori, dobbiamo restare sempre lucidi e sempre calmi: il che, non significa (anzi, è tutto il contrario) il “non fare niente” che a voi viene suggerito dalle Mediolanum, dalle General, dalle Allianz, dalle Fideuram, dalle Fineco di questo mondo. Quelli che vi raccontano che “tanto tutto si riprende sempre”: lo fanno unicamente perché … non saprebbero che cosa altro dire.
Anche Recce’d, chiariamo subito, ritiene che non sia questo il momento di mosse azzardate: vero. Al tempo stesso, noi di Recce’d diciamo che è proprio questo il momento di rendersi conto. Di capire che un vecchio modo di investire, che è fondato su un vecchissimo modo di gestire i vostri risparmi, a voi porterà solo perdite e soltanto danni irreparabili. Amici lettori, non fate la follia di rimanere lì seduti ad attendere il prossimo annuncio di Trump: Recce’d sì, che lo può fare: perché i portafogli dei nostri Clienti sono già pronti, e da inizio 2025.
Il Mondo, ve lo possiamo anticipare, continuerà a girare: il nostro compito di investitore è capire come si fa a guadagnare dai forti sconvolgimenti che ci attendono a breve.
Premesso tutto questo, torniamo ora al nostro percorso: e e facciamo il primo step, con il contributo che segue. Vediamo di comprendere, al meglio possibile, che cosa sta cambiando il Mondo nel 2025. Partiamo dunque, leggendo un primo contributo che riassume la recente evoluzione della geopolitica.
Toccherà agli storici stabilire in che misura la guerra deflagrata fra Israele e l’Iran segna un passo in più nel declino dell’influenza degli Stati Uniti nel mondo. Ancora una volta Donald Trump sembra subire gli eventi invece di guidarli, come del resto accade anche a Gaza, nell’aggressione della Russia contro l’Ucraina e altrove.
L’America resta la superpotenza trionfante sul piano tecnologico, ora più che mai. Ma sta perdendo la sua presa sul sistema internazionale e forse non sarebbe stato molto diverso, se alla Casa Bianca oggi ci fossero Joe Biden o Kamala Harris o persino Barack Obama.
La storia del declino americano
Dai dazi troppe volte annunciati e altrettante volte ritirati o ridiscussi, ai dubbi ormai evidenti sul dollaro quale valuta di riserva e sul debito pubblico degli Stati Uniti quale architrave del sistema finanziario globale, alle guerre che si aggravano, agli scontri in America e agli arresti di massa di migranti nelle strade, fino ai danni delle istituzioni stesse del Paese: quella di Trump nei suoi primi cinque mesi, da quando è tornato, è una storia di declino americano.
I limiti del leader lo rendono particolarmente visibile. Ma magari non è passeggero. E se la questione è in sé troppo grande per una newsletter di economia, in questa cornice rientrano alcune domande brucianti in questi giorni.
La vigilia di un nuovo choc petrolifero?
Siamo alla vigilia di un nuovo choc petrolifero in grado di riportare un’ondata di inflazione e forse una recessione in Italia e in Europa?
Fino a che punto le due superpotenze, Stati Uniti e Cina, saranno in grado di costringere i loro rispettivi alleati, Israele e l’Iran, a mantenere entro binari ben precisi il conflitto fra loro? L’Arabia Saudita sapeva che si stava avvicinando questa guerra e ha cercato di preparare il terreno?
La Russia può trarre vantaggio?
La Russia è in grado di trarre vantaggio dalla nuova crisi in Medio Oriente?
Sono domande collegate fra loro alle quali – avverto – non sono in grado di fornire risposte certe. Ma espando i temi di un articolo uscito lunedì sul «Corriere» per fornire elementi che, spero, aiutino il lettore a formarsi le proprie. A partire dal significato di quello che oggi è il punto più nevralgico del pianeta, uno stretto braccio di mare fra la penisola araba e la massa continentale dell’Asia. Vediamo.
Due corsie da tre chilometri
Lo Stretto di Hormuz misura trentatré chilometri di ampiezza tra la penisola di Musandam, divisa fra Oman e Emirati Arabi Uniti a Sud, e l’Iran a Nord. Le corsie per le navi in entrata e uscita nelle due direzioni sono larghe tre chilometri ciascuna: i tremila metri più vitali e più fragili dell’economia mondiale, nel Golfo Persico.
Domenica 15 giugno alle 18, mentre i missili e i droni volavano sull’Iran, mezzo migliaio fra petroliere, portacontainer ed altre navi si trovavano fra Bassora alla confluenza di Tigri ed Eufrate in Iraq – vicino alla foce nel Golfo – e la costa dell’Oman dall’altra parte dello stretto. Da quel braccio di mare passano più di un quinto dell’offerta mondiale di petrolio (da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Iraq, Iran) e oltre un decimo dell’offerta di gas (congelato sulle navi in gran parte da Qatar, Arabia Saudita e Iran).
Sono petroliere il 61% delle navi che attraversano Hormuz: anche solo il sospetto che l’Iran possa provare a intralciarle, per ritorsione dopo gli attacchi di Israele, farebbe esplodere le quotazioni dell’energia in tutto il mondo. Già sotto la minaccia dei dazi americani e della guerra della Russia, rischierebbe allora di risvegliarsi in una morsa fra inflazione e stagnazione.
I mercati finanziari spesso si sbagliano ma – per ora – non sembrano credere allo scenario peggiore. Le borse hanno perso un po’ di terreno e il petrolio è salito del 7% venerdì; gli investitori sui mercati aperti a Tel Aviv e nel Golfo hanno mostrato autocontrollo, con la borsa israeliana in lieve crescita (0,35%) benché il Paese fosse sotto le bombe e la borsa di Riad solo in lieve flessione.
Certo, a Tel Aviv i mercati crescono perché vengono molto comprate le aziende della difesa e Riad contiene i danni perché è molto comprato il colosso petrolifero Aramco.
La piazza di Dubai
Ma sulla piazza di Dubai il Brent non è salito neanche dell’1% ed è ancora ai livelli in cui si trovava il 2 aprile scorso, il Liberation Day in cui Donald Trump ha annunciato i suoi dazi «reciproci». Per il momento siamo lontani da quotazioni d’emergenza. Il barile è di quasi il 9% sotto ai livelli dell’inaugurazione del presidente americano e del 5,5% sotto ai livelli di un anno fa; dunque contribuisce ancora a ridurre il tasso d’inflazione annuale. «Il mercato del petrolio ha un eccesso di offerta», mi ha detto Simone Tagliapietra, senior fellow del centro studi Bruegel.
I sauditi sapevano?
Qui però si apre una delle domande elencate sopra. Perché in giro non c’è solo la speranza che gli iraniani non siano così folli e suicidi da bloccare lo Stretto di Hormuz e trascinare gli Stati Uniti nel conflitto per riaprirlo. C’è anche la constatazione che l’Arabia Saudita, poco prima di questa guerra, ha fatto l’opposto di ciò che storicamente tende a fare: ha aumentato la produzione di petrolio in un mercato mondiale già ben rifornito e ha fatto così scendere i prezzi del suo stesso prodotto. In questo si è tirata dietro l’intera Opec, triplicando gli aumenti di produzione previsti in maggio e giugno.
Che cosa accadrebbe se lo stretto chiudesse?
Mohammed Bin Salman sapeva? Ha costruito un ammortizzatore per gli choc di questa guerra? Anche qui la risposta toccherà agli storici, è possibile che l’uomo forte di Riad volesse semplicemente ingraziarsi Trump prima della sua visita a metà maggio in Arabia Saudita.
Avverte però Tagliapietra: «Il quadro può cambiare rapidamente se si arrivasse alla destabilizzazione totale di Hormuz». Lo spettro di un blocco di Hormuz non è dissipato. In quel caso l’Arabia Saudita potrebbe esportare al massimo la metà dei suoi 9 milioni di barili al giorno tramite un oleodotto verso il Mar Rosso. Ma gli Emirati (4,4 milioni di barili), il Kuwait (2,5 milioni) e l’Iraq (4,3) milioni sarebbero del tutto tagliati fuori. Rivedremmo il petrolio raddoppiare a 150 dollari al barile e oltre.
Impatto sui prezzi?
Purtroppo non è impensabile. In primo luogo gli Houthi dello Yemen, sostenuti da Teheran, hanno dimostrato di poter mantenere semichiuso lo stretto di Bab el-Mandeb dall’Oceano Indiano verso Suez malgrado più di un anno di pressione militare occidentale. La stessa amministrazione Trump ha bombardato gli Houthi per sette settimane fino a inizio maggio, fino a quando Trump stesso ha dichiarato: «Hanno capitolato». Altro esempio di declino americano. Nella prima settimana di giugno sono passate da Bab el-Mandeb appena trenta navi, come accade da più di un anno, invece delle ottanta in media di prima del blocco (gli Houthi chiedono un «dazio», o pizzo, ai mercantili per non aprire su di loro il fuoco dai promontori yemeniti).
Anche Israele può far saltare gli equilibri
Anche Hormuz ha già vissuto dei contraccolpi nella storia recente. Poco più di un anno fa l’Iran sequestrò il mercantile MSC Aries del gruppo di Gianluigi Aponte, in parte perché la moglie dell’imprenditore è israeliana. Prima ancora durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988) e durante le due guerre del Golfo (1991 e 2003) lo stretto aveva registrato momenti di forte destabilizzazione. Del resto anche Israele potrebbe far saltare i fragili equilibri del mercato, se prendesse di mira le infrastrutture iraniane dell’energia. Sabato ha colpito una raffineria affacciata sul South Pars, il più grande giacimento di gas al mondo (in comproprietà fra Teheran a Nord e Qatar a Sud del Golfo). Ha distrutto anche dei magazzini di carburante. Erano tutti impianti per uso interno dell’Iran, non per l’export, ma l’energia è fungibile: se l’Iran ne ha persa per il proprio uso, può dover ridurre l’export. E soprattutto il mercato del gas resta più vulnerabile a questa guerra di quello del petrolio: oggi il metano in offerta è più scarso del greggio e soprattutto il Qatar è fondamentale per l’accumulo di riserve in Europa in vista prossimo inverno. Se Hormuz dovesse avere problemi, il commercio di gas liquefatto qatarino potrebbe esserne totalmente strangolato: infatti venerdì il gas europeo è rincarato ben oltre le medie mondiali.
Le due superpotenze
Chiaro, contro gli scenari peggiori su Hormuz sono schierati i due grandi spalleggiatori di Israele e Iran.
Gli Stati Uniti non vogliono che Israele colpisca l’industria degli idrocarburi di Teheran e lo hanno reso molto chiaro.
E la Cina, comprando (sottocosto) il 90% dell’export di greggio iraniano sotto sanzioni, sta chiedendo alla teocrazia sciita di lasciar fluire le petroliere del Golfo che alimentano la propria industria.
Così anche America e Cina saranno sottoposte a un severo testo nei prossimi giorni: sono in grado di governare i loro ben più piccoli alleati o ne stanno perdendo il controllo? Nel mondo senza leader né coalizioni formali di questi anni, non è certo che Washington e Pechino riescano a imporre fino in fondo la loro volontà a Gerusalemme e Teheran.
Può allentarsi la tensione su Putin
Ciò apre la domanda più scomoda: è possibile che Vladimir Putin si avvantaggi della deflagrazione in Medio Oriente? Trump è arrivato a indicare il dittatore russo come possibile mediatore, altro sintomo del declino americano. Ma certo nel breve Putin potrebbe guardare agli eventi con e non solo perché l’attenzione internazionale sul Medio Oriente allenterà la pressione su di lui in vista di una tregua; né solo perché effettivamente il Cremlino ha qualche influenza su entrambe le parti in guerra: il 15% degli israeliani parla russo e Israele ha votato di recente alle Nazioni Unite con la Russia stessa, la Corea del Nord, l’Ungheria, la Cina, l’America di Trump e l’Iran stesso contro una condanna delle azioni di Mosca; quanto all’Iran, è la Russia ad avergli venduto l’uranio per la bomba atomica, mentre collaborazione sui droni militari è nota (ma ora i russi hanno appreso la tecnologia e hanno sviluppato una propria industria)
La fortuna di Putin
Ma il punto più importante per la Russia è un altro: grazie ai rincari di questi giorni può vendere il proprio petrolio sopra il 60 dollari al barile, la soglia alla quale l’aggressione all’Ucraina diventa finanziariamente sostenibile; ogni aumento del barile da 10 dollari porta 25 miliardi di dollari in più nel bilancio del Cremlino, secondo l’economica Alexander Kolyandr del Center for European Policy Analysis di Washington. E le forniture di energia dalla Russia diventano più importanti nel mercato globale, portando Trump a essere ancora più contrario a qualunque nuova sanzione sul greggio di Mosca. Così la guerra in Medio Oriente rischia di favorire la guerra di Putin, almeno nell’immediato.
In fondo anche questo è un sintomo sempre della stessa tendenza: il secolo americano sta lasciando posto al secolo del caos
A questo punto, avendo rimesso in ordine lo scenario internazionale, evidenziando gli elementi che sono di maggiore rilievo per chi, come Recce’d, si occupa di investimento e di gestione di portafogli modello, passiamo ad un esame più specifico, e quindi concentrato sulle economie e sui mercati finanziari.
Ci aiuterà a fare questo niente di meno che il Governatore della Banca d’Italia.
Il legame tra i fatti che Visco commenta qui sotto, ed i fatti citati invece sopra nel primo contributo di oggi dovrebbe risultare facile da individuare per tutti i nostri lettori.
Governatore Visco siamo al ritorno dei dazi. Ma cosa ha prodotto l’abbattimento delle barriere commerciali e la progressiva liberalizzazione degli scambi in tre decenni?
“Non possiamo parlare di una singola causa, ma vi è un complesso di fattori non indipendenti tra loro che spiegano lo straordinario incremento degli scambi internazionali di beni e servizi, quadruplicatisi in circa un trentennio. Temporalmente non c’è dubbio che la fine della guerra fredda e la parallela decisione cinese di aprirsi al mercato abbiano segnato una cruciale discontinuità politica rispetto alla precedente divisione in due blocchi tra loro contrapposti, con un terzo mondo sostanzialmente tagliato fuori dai commerci. L’eccezionale sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni e il drastico calo del costo dei trasporti hanno fatto emergere la possibilità di una nuova forma di divisione del lavoro e della produzione. Si sono quindi affermate ‘catene globali del valore’, cosicché un prodotto ‘finale’ è sempre più diventato il risultato di una combinazione di parti e processi distribuiti in luoghi tra loro anche molto distanti.
“Questa distribuzione è stata determinata soprattutto dalla disponibilità e convenienza relativa dei fattori di produzione: non solo lavoro e capitale, ma anche materie prime, idee e conoscenze. Con la costituzione nel 1995 dell’Organizzazione mondiale del commercio e l’applicazione tra i Paesi membri della clausola della ‘nazione più favorita’, la riduzione delle barriere normative e tariffarie è quindi diventata un obiettivo sempre più condiviso, con ampi e diffusi benefici negli scambi non solo di beni ma anche di servizi, in particolare finanziari e tecnologici. Era il 2001 quando si festeggiava l’ingresso della Cina nell’Omc”.
Secondo lei è mai avvenuta l’integrazione reale e finanziaria della Cina in un “ordine” mondiale definito secondo i valori delle economie democratiche, liberali e di mercato?
“La Cina entrò a far parte dell’Omc dopo un lungo negoziato nel quale ebbero un ruolo molto importante gli Stati Uniti sotto la presidenza di Clinton. Indubbiamente il mondo ‘occidentale’ di allora pensava che il processo di trasformazione della Cina in una economia di mercato l’avrebbe aperta nel tempo anche ai valori delle democrazie liberali. Inizialmente, però, le fu concesso di partecipare come un’economia emergente, ‘non di mercato’, con la possibilità, in particolare, di concedere alle proprie imprese ingenti aiuti e sussidi statali; questo in misura certamente maggiore e meno trasparente che nei Paesi cosiddetti avanzati. È indubbio che la Cina ha fortemente beneficiato di questo status; con una crescita eccezionale, di natura essenzialmente mercantile, fondata cioè sulle esportazioni ancor più che sulla domanda interna per consumi: il suo prodotto pro capite è oggi 14 volte superiore a quello del 1990. Nonostante sia a tutti gli effetti diventata ormai una grande potenza industriale, la Cina non ha però accettato di mettere in discussione questa favorevole condizione nell’ambito dell’Omc, in contrasto con le aspettative degli altri principali paesi.
"Nel tempo questo ha concorso ad accelerare la riduzione di occupazione manifatturiera in questi paesi, in particolare negli Stati Uniti, accentuando un trend peraltro già in atto per il progresso tecnologico. Il partito comunista cinese ha inoltre continuato a occupare un ruolo cruciale nella direzione delle imprese e nella pianificazione e nello sviluppo delle attività di innovazione e ricerca. È andata quindi crescendo, negli Stati Uniti ma anche in Europa, la percezione che accanto agli aiuti statali si sia andata affermando una concorrenza sleale, almeno inizialmente basata anche sullo spionaggio industriale e sul mancato rispetto della proprietà intellettuale”.
Siamo vicini alla “fine della globalizzazione”, almeno per come si è sviluppata dalla fine della guerra fredda a oggi?
“Va anzitutto sottolineato che nonostante i benefici della globalizzazione, e dell’eccezionale progresso tecnologico, degli ultimi decenni, sia straordinariamente mancata l’azione politica rivolta a una loro equa distribuzione (per non parlare degli effetti negativi sul clima e l’ambiente). Questo spiega anche l’atteggiamento che ampie fasce della popolazione, soprattutto ma non solo negli Stati Uniti, appaiono avere nei confronti dell’apertura dei mercati e del libero scambio. In ogni caso, già prima del cambiamento politico negli Usa, la fragilità nell’approvvigionamento di materie prime cruciali (semiconduttori, metalli, terre rare) e semilavorati emersa con la pandemia e i gravissimi conflitti cui stiamo purtroppo ancora assistendo avevano spinto nella direzione di un rientro di alcune fasi produttive (near shoring) e, sulla spinta politica americana, al loro aumento all’interno di paesi ‘amici’ o alleati (friend shoring).
"Con la nuova amministrazione Trump, la frammentazione economica è destinata ad aumentare, probabilmente non solo tra paesi avanzati e emergenti. Tuttavia, riguardo alla ‘fine della globalizzazione’ risponderei con un qualificato ‘no’. Data l’interdipendenza economica ancora esistente una drastica ridistribuzione dei luoghi di produzione appare infatti ancora difficile da attuare, e in termini economici molto costosa. Fino allo scorso anno, comunque, nonostante barriere, tariffe e sanzioni, il commercio internazionale ha continuato a vedere una Cina particolarmente attiva, anche con triangolazioni nei confronti degli Stati Uniti grazie al ruolo di intermediazione svolto da numerosi altri paesi emergenti”.
Che impatto hanno avuto gli squilibri associati all’apertura dei mercati mondiali di beni, servizi e capitali sulla bilancia dei pagamenti dei diversi Paesi?
“Nel mondo ormai c’è un solo grande debitore, gli Stati Uniti: la loro posizione patrimoniale netta – la differenza tra le attività finanziarie detenute all’estero dai residenti negli Usa e le passività finanziarie verso non residenti – è negativa per oltre 26.000 miliardi di dollari, pari al 90% del Pil.
Molti altri Paesi hanno invece attività finanziarie nette positive, anche se individualmente molto più piccole in termini assoluti; tra i Paesi creditori, le più importanti, tra i 3.000 e i 4.000 miliardi, sono quelle di Giappone, Germania e Cina. Questo è soprattutto il risultato di importazioni americane superiori ogni anno alle loro esportazioni. La somma nel tempo dei disavanzi ha quindi prodotto passività nette il cui valore è straordinariamente aumentato negli ultimi 15 anni. Infatti, pur cresciuti in termini assoluti (in particolare nei confronti della Cina che dall’inizio del secolo ha accumulato un surplus di esportazioni nette di beni pari a circa 7.000 miliardi di dollari) non sono i disavanzi commerciali ad aver determinato lo straordinario aumento relativo delle passività nette degli Stati Uniti verso l’estero”.
A cosa è dovuto, almeno dal 2011, lo straordinario aumento del valore delle passività finanziarie statunitensi?
“Questo aumento è in parte dovuto all’apprezzamento del dollaro nei confronti del complesso delle altre valute, ma soprattutto a un incremento eccezionale, superiore al 370%, dei valori azionari delle società americane (a fronte di meno del 25% dell’aumento medio in dollari delle quotazioni azionarie delle società nel resto del mondo). Se si escludono queste variazioni di valore la posizione passiva netta americana, oggi pari al 90% del Pil, è ferma al livello del 50% circa registrato nel 2010”.
È possibile un aggiustamento? Come? Con i dazi? E possono i dazi aiutare a riportare la manifattura negli Usa?
“Più che possibile un aggiustamento è necessario. Il rischio è che sia disordinato e molto costoso. I dazi sono imposte sui flussi commerciali; probabilmente determineranno un aumento dei prezzi dei prodotti importati dagli Stati Uniti. Se ne deriverà una riduzione delle importazioni di manufatti, semilavorati e materie prime non tutte potranno essere sostituite, nel tempo, dalla produzione interna, una produzione che sarà comunque più costosa e, a parità di occupazione, andrà probabilmente a scapito della stessa produzione americana per l’export. È comunque molto dubbio che si possa ottenere una riduzione dello squilibrio commerciale americano in assenza di un calo dei consumi, e questo è probabilmente il modo meno efficace e più costoso per ottenerlo.
"L’alternativa sarebbe quella di ridurre il disavanzo pubblico americano, ma le maggiori entrate dovute ai dazi (pagate in ultima istanza dai consumatori americani e forse in parte dalle imprese estere esportatrici se riusciranno a contenere i loro prezzi) sembrano essere destinate nelle intenzioni del governo a ridurre le imposte, non i trasferimenti. Continuerebbe quindi l’aumento del debito pubblico, già oggi superiore ai 36.000 miliardi di dollari (12 volte quello italiano), oltre il 120 per cento del Pil, a meno che non si abbia una drastica riduzione della spesa pubblica, ad esempio tagliando il numero dei dipendenti federali, le spese per l’istruzione e la ricerca, o quelle per l’assistenza, come da più parti si teme, anche alla luce delle più recenti azioni e dichiarazioni della nuova amministrazione”.
E il boom dei titoli azionari? Si può prevedere un loro ridimensionamento?
“Come ho detto, oltre all’apprezzamento del dollaro, lo straordinario aumento del valore delle passività finanziarie statunitensi è dovuto a una crescita senza pari dei prezzi delle azioni. Questa è stata trainata dalla performance dell’industria tecnologica statunitense, in particolare dai titoli delle maggiori società tecnologiche, le ‘Magnifiche 7’, sia negli Stati Uniti, dove rappresentano circa un terzo della capitalizzazione complessiva del mercato statunitense, sia a livello mondiale. Il loro successo è certamente il risultato dei massicci investimenti in innovazione e capitale effettuati dopo la crisi finanziaria mondiale, e riflette quella che è stata la forza dell’economia statunitense, più che la debolezza connessa con lo straordinario passivo finanziario netto nei confronti dell’estero.
"Tuttavia, l’altissimo rendimento di questi titoli riflette probabilmente anche l’aumento del loro potere di mercato e il parallelo aumento dei profitti di monopolio, risultato di una preoccupante concentrazione di conoscenze e potere economico (cui fanno riscontro analoghi sviluppi in sistemi fortemente autocratici). Questo da un lato comporta perdite di benessere sociale, dall’altro potrebbe avere conseguenze non positive nel più lungo periodo, per l’affievolirsi, in particolare, degli investimenti innovativi in connessione con l’aumento delle rendite monopolistiche. Vi è evidentemente il rischio che tutto ciò porti a una correzione del mercato azionario non graduale, e forse eccessiva”.
Si è parlato anche di una svalutazione del dollaro. Sarebbe possibile e come?
“Nella letteratura economica a un aumento dei dazi è solitamente associato un apprezzamento del cambio, come riflesso delle presumibili conseguenti maggiori aspettative d’inflazione. Se però dominassero le attese recessive, connesse anche con lo straordinario aumento dell’incertezza associato alle iniziative che il governo americano sembra oggi mettere in atto oltre che sul piano tariffario anche sul fronte interno, potrebbero derivarne conseguenze negative per il dollaro. Una correzione in questa direzione è probabilmente dovuta; la questione, anche in questo caso, è come ottenerla senza tensioni particolarmente elevate, quando non possiamo che constatare il significativo indebolimento della cooperazione internazionale, non solo sul piano commerciale ma anche su quello finanziario”.
Come si può favorire il dialogo tra i diversi sistemi, nel rispetto delle sovranità oggi esistenti, con l’unica condizione, imprescindibile, del rispetto fondamentale dei principi e dei valori fondanti della convivenza pacifica tra le nazioni?
“Il problema sta proprio nel fatto che negli ultimi anni si sono sempre più affievolite la capacità e la forza di impegnarsi in nuovi sforzi di cooperazione, necessari per elaborare risposte comuni a sfide globali, siano esse ambientali, demografiche, tecnologiche o sanitarie, oltre che per ridurre con decisione i rischi derivanti dagli squilibri commerciali e finanziari di cui abbiamo parlato. Probabilmente, anziché mirare a un ritorno a un grande disegno cooperativo, l’unica soluzione sarebbe quella di affrontare le singole questioni una alla volta, partendo dalla consapevolezza dell’esistenza di cruciali interessi comuni e globali.
"Mi pare, tuttavia, che vadano anzitutto chiariti gli obiettivi di fondo perseguiti dal presidente Trump e dalla sua amministrazione nello scacchiere internazionale, essendo sempre più evidente che più che sul piano commerciale il confronto con il resto del mondo, in primis con la Cina, sia di natura tecnologica e geopolitica, quando non militare. Ma le sfide globali, incluso il ritorno a un ordinato sistema monetario internazionale, non possono essere accantonate semplicemente rinunciando alla cooperazione e alla ricerca di soluzioni sensate e sufficientemente ampie.
“Quanto agli aspetti distributivi conseguenti sia all’apertura internazionale sia allo sviluppo tecnologico, finora in massima parte trascurati, vanno affrontati senza cedere a letture e condotte populiste e nazionaliste, non ben meditate e, non solo a lungo andare, dannose. Purtroppo, restano sullo sfondo le diverse posizioni (o “non posizioni”) sui diritti umani, freno all’apertura di un dialogo sufficientemente equilibrato e duraturo anche su temi di comune interesse. È realisticamente difficile fare passi avanti in assenza di un chiarimento definitivo, anche a questo riguardo, tra Stati Uniti, Cina ed Europa (comunque la si definisca)”.
* Intervista su temi da lui trattati nella Lezione Mario Arcelli tenuta a Piacenza lo scorso 11 aprile
Siamo arrivati al terzo ed ultimo step (per oggi) del nostro percorso: il terzo step vi aiuterà a calare le considerazioni di Visco che avete appena letto nel contesto di questi giorni, ed in particolare nel contesto dei mercati finanziari internazionali.
L'ultimo attacco di Israele all'Iran costituisce un grave shock per l'economia globale in un momento già fragile. Aumenta i rischi sia per la crescita che per l'inflazione, proprio come la flessibilità degli strumenti fiscali e monetari che possono essere impiegati in risposta è diventata limitata. La gravità degli effetti negativi dipenderà dall'entità e dalla durata dell'attacco unilaterale di Israele e dalle rappresaglie che innescherà. Ma dato il già elevato livello di incertezza, i mercati stanno reagendo negativamente. I prezzi del petrolio sono aumentati di oltre il 5%, attestandosi a circa 70 dollari al barile. Si tratta di un dato ancora inferiore ai picchi di gennaio di circa 82 dollari al barile e gli investitori saranno ansiosi di vedere come reagirà l'Opec+.
Ma i prezzi sono aumentati nelle ultime settimane, intensificando i venti di stagflazione che soffiano sull'economia globale. I mercati azionari sono scivolati, scontando un'incertezza ancora maggiore riguardo all'attività economica, con un rischio maggiore che consumatori e produttori diventino ancora più esitanti.
All'inizio di questo mese, la Banca Mondiale ha previsto un rallentamento della crescita globale al 2,3% nel 2025, quasi mezzo punto percentuale in meno rispetto al tasso previsto all'inizio dell'anno. Pur non prevedendo una recessione globale, ha avvertito che, se le previsioni per i prossimi due anni si materializzassero, la crescita globale media nei primi sette anni del 2020 sarebbe la più lenta di qualsiasi decennio dagli anni '60. E questo ipotizzando un prezzo medio del petrolio di 66 dollari al barile per il 2025 e di 61 dollari il prossimo anno, in un contesto di più ampio calo dei prezzi delle materie prime.
Le banche centrali dovranno ora intensificare la loro vigilanza sulle pressioni inflazionistiche che non sono ancora state contenute con sicurezza. Ciò rende meno probabile che vengano innescati tagli anticipati e più ampi dei tassi di interesse in risposta a qualsiasi rallentamento.
Nel frattempo, qualsiasi risposta fiscale arriverebbe in un momento di tassi di interesse ancora elevati e di grande sensibilità degli investitori a deficit e debito. I bilanci rischiano di essere ulteriormente sottoposti a pressioni derivanti da una minore riscossione delle imposte e da maggiori richieste di spesa.
Tali potenziali effetti economici e finanziari negativi sono particolarmente rilevanti per il Regno Unito. La Spending Review di questa settimana ha evidenziato non solo l'importanza della crescita economica, ma anche il rischio che le famiglie, già sotto pressione, si trovino ad affrontare una significativa possibilità di una tassazione più pesante nel bilancio di ottobre. Ciò compensa il beneficio di ulteriori tagli dei tassi della Banca d'Inghilterra, ora ancora meno certi. L'economia globale si trova anche ad affrontare il rischio di effetti indiretti negativi.
Col tempo, l'incertezza derivante da questa nuova crisi in Medio Oriente potrebbe essere vista come un'aggiunta all'attuale erosione dell'ordine economico globale guidato dagli Stati Uniti, alimentando ulteriormente le forze della frammentazione economica. Ciò, a sua volta, incoraggerà i paesi a fidarsi meno dei meccanismi collettivi di stabilità, spingendoli invece a perseguire misure per garantire una maggiore autosufficienza all'interno dei propri confini. In definitiva, l'efficienza dell'economia globale sarà compromessa.
Non passerà inosservato nemmeno il fatto che i due più importanti indici finanziari globali, i titoli del Tesoro USA e il dollaro, abbiano avuto una risposta iniziale relativamente contenuta all'attacco israeliano. Entrambi si sono ripresi leggermente, ma nessuno dei due ha registrato il tipo di "guadagni rifugio" che l'esperienza storica ci porterebbe ad aspettarci. Questo è importante anche a lungo termine.
A causa della lunga influenza degli Stati Uniti sull'economia globale e del loro lungo periodo di eccezionalismo economico, gran parte del resto del mondo è "sovrappeso" sul dollaro e sugli asset americani in generale. Più il ruolo degli Stati Uniti al centro dell'ordine globale si riduce, maggiore è l'incentivo per i paesi a ridurre questo sovrappeso. In qualunque modo lo si guardi in termini di effetti economici e finanziari, questo nuovo sviluppo in Medio Oriente è una cattiva notizia in un momento sbagliato. Ricorda alle economie e ai mercati che devono affrontare una serie di fattori politici e geopolitici sempre più instabili. E incoraggia una migrazione graduale dall'attuale architettura economica a un'altra caratterizzata da una maggiore frammentazione e da un rischio più elevato di instabilità finanziaria.
E’ importante ripetere, a questo punto, che NON è detto che noi di Recce’d condividiamo tutto ciò che viene scritto nei contributi esterni che noi vi mettiamo a disposizione.
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In conclusione del Post, arriviamo dunque ad Ernest Hemingway (citato dal nostro titolo di oggi).
Hemingway, grazie alla ben nota forza delle sue frasi, e della sua scelta delle parole, oggi può risultare ed utile per ognuno dei nostri lettori e per tutti gli investitori del Pianeta. Proprio in questo contesto, che vi è stato descritto, ed analizzato, lungo il percorso in tre step che Recce’d vi ha appena proposto.
Il romanzo di Hemingway, che citiamo qui, in Italia viene pubblicato con il titolo “Fiesta”.
Lasciamo la citazione nella lingua originale.