Longform'd (terza parte) Giugno 2022: la crisi di fiducia è arrivata.

 

Il primo semestre del 2022 per la grande parte degli investitori, in Italia e non solo, è stata un vero e proprio incubo.

E questo non soltanto a causa dei risultati, come diremo più avanti.

I risultati, senza dubbio, per la maggioranza degli investitori sono stati disastrosi, ed in una misura che non ha precedenti, come leggete nella tabella che apre il nostro Longform’d.

Disastrosi in particolare di quei portafogli “ad asset allocation” proposti (imposti, per dire meglio) in modo unanime ed uniforme dal cartello delle Reti di vendita di “prodotti finanziari” (le Reti di promotori finanziari, che successivamente sono stati re-brandizzati come “consulenti”, oppure wealth manager, oppure private banker, ma che a tutto oggi devono la loro esistenza unicamente al conflitto di interesse).

I risultati dei citati portafogli, cosiddetti “ad asset allocation” (non è la sola asset allocation possibile: si tratta semplicemente della LORO asset allocation, uguale per tutti) sono in effetti risultati non solo inferiori alle attese di gennaio 2022: sono anche i peggiori risultati semestrali degli ultimi cinquanta anni.

Su questo specifico argomento, ovvero la costruzione del portafoglio titoli e le varie alternative per la asset allocation, noi di Recce’d scriveremo presto in modo ampio ed approfondito, nella pagina del sito che si chiama SCELTE DI PORTAFOGLIO.

Torniamo però all’attualità. Come tutti sapete, le Reti di promotori finanziari, in fasi di mercato come quella attuale, hanno un solo messaggio per il loro Clienti, grandi e piccolo: ovvero “tenete duro, è un brutto momento, ma poi passerà”.

Atteggiamento che non solo non è professionale (non è professionale, in alcuna professione, appellarsi alla “fede” oppure alla “provvidenza di Dio” come nei Promessi Sposi), ma è pure irresponsabile: grandi e piccoli, tutti i promotori finanziari spingono sempre sull’investire, sulla Borsa, persino sui BTP, senza avere la più piccola idea di come in futuro si comporteranno davvero quegli investimenti.

Per la normativa vigente, in Italia ma non solo, la competenza NON è un requisito professionale indispensabile. Spingere su “prodotti finanziari” perché “ad alto margine” (per quelli che li piazzano agli investitori) in conflitto di interesse NON costituisce un problema urgente. E infatti viene tollerato.

Un domani, dice l’immagine qui sotto, le cose potrebbero cambiare: e noi di Recce’d, insieme con tutti gli investitori che hanno consapevolezza ci ciò che fanno dei propri soldi, ce lo auguriamo con tutte le forze.

Proprio per effetto di questa diffusa e profonda incompetenza di cui si è appena detto, e che si può documentare grazie ai dati, quasi tutti gli investitori italiani per due anni sono stati “pompati”, ovvero spinti a mettere in portafoglio “più rischio”, sulla base di argomenti come:

  1. il boom economico

  2. l’inflazione transitoria

  3. le Banche Centrali che hanno il controllo di tutto e prevedono tutto

Erano tutte balle: favole del tutto inventate, al solo scopo di “piazzare la merce”.

Scriverlo oggi è facile: sta scritto su tutti i giornali.

Scriverlo, come noi abbiamo fato, nell’agosto del 2020 e nei mesi successivi, non è stato banale, né facile.

La grande massa degli investitori è stata trattata, dai media e dalle Reti di vendita di Fondi Comuni, come “il gregge dei grulli”, senza che le Autorità preposte ritenessero opportuno proteggerle dalla “infondata euforia” alimentata dai canali di vendita e dai media. E come leggete nell’immagine, anche da alcuni Premi Nobel dell’Economia.

Chi al contrario ha seguito altre e diverse indicazioni, come ad esempio quelle fornite da noi di Recce’d anche attraverso il Blog che state leggendo, oggi NON si trova a soffrire di ansie notturne. Oggi NON soffre di confusione mentale. Ed oggi guarda alle prossime operazioni come fa chi ha “il pallino in mano” e può scegliere.

Come scritto poco più sopra, la maggioranza degli investitori italiani soffre a causa di performances che sono state appena definite “miserabili” niente meno che da Goldman Sachs, come leggete qui nell’immagine. Ma non soffre soltanto per quella ragione.

Soffre, lo ripetiamo, anche per uno stato di ansia profonda e di confusione mentale: tutti i riferimenti, tutti gli ancoraggi, tutti i “punti fermi” che agli investitori erano stati proposti (imposto) negli ultimi quindici anni, dopo la Grande Crisi Finanziaria 2007-2009.

Oggi, la massa degli investitori soffre di ansia e confusione perché non riesce più a costruirsi uno “scenario futuro di riferimento”, e quindi non è in grado di operare scelte di investimento consapevoli, perché non è in grado di dire su che cosa tali scelte vanno fondate.

La grande maggioranza degli investitori ha capito (finalmente) che le Banche Centrali sono molto semplicemente Istituzioni pubbliche gestite da funzionari pubblici, soggetti a pressioni politiche, e non “benefattori universali ed infallibili”. In quanto Istituzioni pubbliche, perseguono obbiettivi politici: beneficiano alcuni, a danni di altri. Fanno scelte politiche, appunto.

Sono, in poche parole, semplicemente esseri umani.

Detto delle Banche Centrali, all’investitore quali certezze restano? I politici, forse? Il Fondo Monetario Internazionale? Goldman Sachs e Morgan Stanley e UBS? Mediolanum e Fideuram? FINECO e Allianz? Generali e una qualsiasi di tutte le altre?

Qui i fatti, e la storia delle Istituzioni citate, parlano da sole, e noi non aggiungeremo altro.

La massa degli investitori si sente così: sola ed abbandonata di fronte all’incertezza. Che oggi è 10, 100, 1000 volte più elevata (sembra a quegli investitori: in realtà, è la medesima che c’è sempre stata). Questa è la crisi di fiducia del titolo qui sopra.

L’investitore consapevole, oggi è costretto a fare uno sforzo (finalmente): deve ragionare con la propria testa, deve selezionare e capire, deve evitare di affidarsi ad un nome, ad uno slogan, ad una etichetta.

Deve fare scelte autonome, indipendenti, non condizionate dal brand.

Deve trovare nuovi riferimenti: il nostro suggerimento, come sapete, è quello di uscire dalla trappola costruita dalle Reti di promozione finanziaria, anche grazie ad una normativa a protezione del cartello commerciale, e affidarsi ad operatori indipendenti, e liberi dal conflitto di interesse.

Affidarsi a chi ha competenza professionale specifica, e a chi non è costretto a ripetervi sempre che “tutto va bene” per mettersi in tasca le retrocessioni delle commissioni sui cosiddetti “prodotti finanziari, come UCITS, certificati, Fondi Comuni e così via.

Come sempre, noi di Recce’d offriamo gratuitamente attraverso il Blog a tutti questi investitori “abbandonati” utili elementi di informazione, di analisi e di valutazione, allo scopo di aiutarli prima di tutto a comprendere ciò che accade intorno a loro.

Noi immaginiamo senza difficoltà l’ansia e la confusione della maggioranza degli investitori, investiti da questa ondata di ribassi e di volatilità. L’investitori di massa non può chiaramente comprendere come sia possibile passare, in soli quindici giorni, da un mercato finanziario totalmente dominato dal tema “inflazione”, con i rendimenti in forte rialzo (Treasury USA al 3,45% e BTp Italia al 4,20% sulle scadenze decennali) ad un mercato dominato in tutto e per tutto dal tema “recessione” (e conseguente crollo dei rendimenti.

E’ successo esattamente questo, nelle ultime due settimane di mercato. Ha senso, la cosa? Non ha alcun senso: una testimonianza concreta è offerta sia dai dati visti la settiana scorsa per l’inflazione, sia dal titolo che leggete qui vicino.

Non ha senso: è semplicemente una concreta ed evidente manifestazione di quel disagio, di quella confusione, di quell’ansia che abbiamo citato più sopra. La situazione dei mercati è dominata dall’emotività, dalla paura, ed appunto dalla confusione.

Violenti cambiamenti di umore di questo genere sono tipici di tutte le fasi di crisi dei mercati finanziari: ma una crisi così ampia e profonda come quella in corso non c’è mai stata prima, ed è quindi del tutto impossibile dire quando le violente oscillazioni si calmeranno. La situazione oggi è questa, e rimarrà questa per almeno un certo periodo.

La “asset allocation” delle Reti di promozione finanziaria, da questo punto di vista, lascia l’investitore del tutto “a vento”, del tutto privo di protezione, ed in balia dei mercati finanziari. Il solo argomento di tutti i private bankers, in questo momento, è sempre il solito: “tenete duro, prima o poi passerà”.

Ma passerà, prima o poi? Loro, i private bankers, i wealth managers, non ne hanno idea, e la grande massa degli investitori neppure.

Recce’d è in grado di risolvere questa ansia, di eliminare questa confusione, e di gestire la fase di mercato in corso portando i propri portafogli modello a risultati positivi e dignitosi senza assumere rischio finanziario in misura eccessiva.

A chi deciderà di contattarci, illustreremo le modalità che permettono di raggiungere questi risultati.

Nel Longform’d di oggi invece ci limitiamo come già detto ad offrire contenuti informativi, analisi e valutazioni a supporto delle scelte di investimento dei nostri lettori.

Nell’articolo che segue, pubblicato in settimana dal Wall Street Journal, leggerete l’opinione di John H. Cochrane, uno dei più noti e qualificati economisti in materia di Finanza e Mercati.

L’articolo vi sarà molto utile, e vi invitiamo a leggerlo per intero. Noi per voi abbiamo evidenziato due passaggi, di particolare attualità;

  • un passaggio dove si spiega perché è del tutto sbagliato assumere che “se ci sarà la recessione, calerà anche l’inflazione”; ed anche

  • un secondo passaggio dove si sottolinea quale è la maggiore differenza tra la situazione attuale e quella degli Anni Settanta ed Ottanta.

The current inflation was sparked by fiscal policy—the government printed or borrowed about $5 trillion, and sent checks to people and businesses. The U.S. has borrowed and spent before without causing inflation. People held the extra debt as a good investment. That this stimulus led to inflation thus reflects a broader loss of faith that the U.S. will repay its debt.

The Federal Reserve’s monetary-policy tools to cure this inflation are blunt. By raising interest rates, the Fed pushes the economy toward recession. It hopes to push just enough to offset the stimulus’s fiscal boost. But monetary brakes and a floored fiscal gas pedal mistreat the economic engine.

Raising interest rates can lower stock and bond prices and raise borrowing costs, cutting into home construction, car purchases and corporate investment. The Fed can interrupt the flow of credit. But higher interest rates don’t do much to discourage people from spending government stimulus checks. At best, the economy is unbalanced. The economy needs investment and housing. Today’s demand is tomorrow’s supply.

Slowing the economy isn’t guaranteed to reduce inflation durably anyway. Even in the 2008 recession, with unemployment above 8%, core inflation fell only from 2.4% in December 2007 to 0.6% in October 2010, and then bounced back to 2.3% in December 2011. At this rate, even temporarily curing 6% May 2022 core inflation would take a dismal recession. In 1970 and 1974, the Fed raised interest rates more promptly and more sharply than now, from 4% to 9% in 1970 and from 3.5% to 13% in 1974. Each rise produced a bruising recession. Each reduced inflation. Each time, inflation roared back.

The Phillips curve, by which the Fed believes slowing economic activity reduces inflation, is ephemeral. Some recessions and rate hikes even feature higher inflation, especially in countries with fiscal problems. The Fed will face fiscal headwinds. The Biden administration and Congress will wish to respond to a recession with more stimulus and another financial bailout, which will only lead to more inflation. A recession without the expected stimulus and bailout will be really severe.

Higher interest rates will directly make deficits worse by adding to the interest costs on the debt. Reducing inflation was hard enough in 1980, when federal debt was under 25% of gross domestic product. Now it is over 100%. Each percentage point interest rates are higher means $250 billion more in inflation-inducing deficit.

Many governments, including the U.S. under the Biden administration, want to address inflation by borrowing and printing even more money to help people pay their bills. That will only make matters worse. A witch hunt for “greed,” “monopoly” and “profiteers” will fail to make a dent in inflation, as it has for centuries. Price controls or political pressure to reduce prices will create long lines and exacerbate supply-chain snafus. Endless dog-ate-my-homework excuses, spin about “Putin’s price hike” and transparently silly ideas such as a gas-tax holiday only convince people that the government has no idea what it’s doing.

Monetary policy alone can’t cure a sustained inflation. The government will also have to fix the underlying fiscal problem. Short-run deficit reduction, temporary measures or accounting gimmicks won’t work. Neither will a bout of growth-killing high-tax “austerity.” The U.S. has to persuade people that over the long haul of several decades it will return to its tradition of running small primary surpluses that gradually repay debts. That outcome requires economic growth, which raises long-run taxable income. Raising tax rates alone is like climbing a sand dune, as each rise hurts income growth. The U.S. also needs spending reform, especially on entitlements. And it needs to break the cycle that each crisis will be met by a river of printed or borrowed money, bailouts for big financial firms and stimulus checks for voters.

The good news is that inflation can end quickly, and without a bruising recession, when there is joint fiscal, monetary and economic reform. The inflation targets New Zealand, Israel, Canada and Sweden adopted in the early 1990s are good examples. They included deep fiscal and economic reforms. The sudden end of German and Austrian hyperinflations in the 1920s, when fiscal problems were resolved, are more dramatic examples. In the U.S., tight money in the early 1980s was quickly followed by tax, spending and regulatory reform. Higher economic growth produced large fiscal surpluses by the end of the 1990s. Without those reforms, the monetary tightening might have failed again. If those reforms had come sooner, disinflation might well have been economically painless.

Mr. Cochrane is a senior fellow at the Hoover Institution and author of “The Fiscal Theory of the Price Level,” forthcoming this fall.

Noi di Recce’d giudichiamo l’articolo che avete appena letto in modo molto positivo. per fare le vostre scelte di investimento nel secondo semestre 2022 non potete prescindere da ciò che Cochrane scrive qui sopra.

Dunque, concetti imprescindibili: ma, presi da soli, non sufficienti, a nostro giudizio.

Noi pensiamo che sia indispensabile aggiungere altri elementi, per comporre una vostra valutazione, arrivare alla consapevolezza di ciò che state facendo, e scegliere per il futuro del vostro portafoglio in titoli.

Per questa ragione, completiamo la terza parte del nostro Longform’s con un secondo articolo, tratto in questo caso dal Financial Times.

Nell’articolo che segue, firmato da Mohamed El Erian, ritorniamo al tema della credibilità e della fiducia, che è il tema conduttore dell’intero Longform’s in tre parti pubblicato dal nostro Blog.

Non fatevi cogliere impreparati, e non fatevi distrarre: è questo oggi il tema centrale sui mercati finanziari, il tema sulla base del quale si muoveranno nel secondo semestre 2022 i mercati, e quindi i titoli nel vostro portafoglio.

Da questo tema deriva la accentuata, ed in qualche caso abnorme, volatilità dei mercati di queste ultime settimane, e delle prossime settimane.

Dalla volatilità dovete partire, e tutti devono partire oggi per la gestione dei propri investimenti.

Da questo tema quindi dovete procedere, per le vostre future scelte ed in generale per la gestione di portafoglio.

Leggendo l’articolo che noi vi offriamo qui, sarete informati nel modo migliore sia in merito alle ragioni per le quali la credibilità delle Istituzioni oggi viene messa in discussione dai mercati finanziari, sia in merito ad una situazione di instabilità finanziaria nel prossimo futuro, sia sul rischio di ulteriori, gravi errori nelle scelte di politica monetaria e fiscale.

Non potete avere alcuna consapevolezza delle vostre scelte di investimento, se non vi siete chiariti le idee su questi argomenti: più che mai, oggi per la vostra gestione di portafoglio non è possibile accontentarsi delle frasi imbonitrici del tipo “state calmi, andrà tutto bene, si sistemerà tutto”.


The markets are evolving their minds about US economic prospects just as the Federal Reserve has been scrambling again to catch up to developments on the ground. This risks yet another round of undue economic damage, financial volatility and greater inequality. It also increases the probability of a return to the “stop-go” policymaking of the 1970s and 1980s that exacerbates growth and inflation challenges rather than addressing them. Good central bank policymaking calls for the Fed to lead markets rather than lag behind them, and for good reasons. A well-informed Fed with a credible vision for the future minimises the risk of disruptive financial market overshoots, strengthens the potency of forward guidance on policy and provides an anchor of stability that facilitates productive physical investment and improves the functioning of the real economy.

Coming into the second half of June, the Fed had already lagged behind markets twice in the past 12 months and in a consequential manner. First it stubbornly held on to its “transitory” mischaracterisation of inflation until the end of November, thereby enabling the drivers of inflation to broaden and become more embedded. Second, having belatedly course-corrected on the characterisation, it failed to act in a timely and decisive manner — so much so that it was still injecting exceptional liquidity into the economy in the week in March when the US printed a 7 per cent-plus inflation print. These two missteps have resulted in persistently high inflation that, at 8.6 per cent in May, is hindering economic activity, imposing a particularly heavy burden on the most vulnerable segments of the population, and has contributed to significant market losses on both stocks and government bonds.

Now a third mis-step may be in the making as indicated by developments last week. Having rightly worried about the Fed both underestimating the threat of inflation and failing to evolve its policy stance in a timely manner, markets now feel that a late central bank scrambling to play catch-up risks sending the US economy into recession. This contributed to sharply lower yields on government bonds last week just as the Fed chair, Jay Powell, appeared in Congress with the newly-found conviction that the battle against inflation is “unconditional”.

The markets are right to worry about a higher risk of recession. While the US labour market remains strong, consumer sentiment has been falling. With indicators of business confidence also turning down there is growing doubt about the ability of the private sector to power the US economy through the major uncertainties caused by this phase of high inflation. Other drivers of demand are also under threat. The fiscal policy impetus has shifted from an expansionary to contractionary stance and exports are battling a weakening global economy.

With all this, it is not hard to see why so many worry about another Fed mis-step tipping the economy into a recession. In addition to undermining socio-economic wellbeing and fuelling unsettling financial instability, such a mis-step would erode the institutional credibility that is so crucial for future policy effectiveness. And it is not as if Fed credibility has not been damaged already. In addition to lagging behind economic developments, the central bank has been repeatedly criticised for its forecasts for both inflation and employment — the two components of its dual mandate. A recent illustration of this was the sceptical reaction to the Fed’s update on monetary policy released on June 15.

The scenario that worries the market — the Fed aggressively hiking rates only to be forced to reverse by the end of this year due to the threat of recession — is certainly a possibility, and it is not a comforting one. T

here is another equally possible alternative, if not more likely and more damaging economically and socially: A multi-round flip-flopping Fed. In this scenario, a Fed lacking credibility and sound forecasts would fall in the classic “stop-go” trap that haunted many western central banks in the 1970s and 1980s and remains a problem for some developing countries today lacking policy conviction and commitment. This is a world in which policy measures are whipsawed, seemingly alternating between targeting lower inflation and higher growth, but with little success on either. It is a world in which the US enters 2023 with both problems fuelling more disruption to economic prosperity and higher inequality.