Come nel 1978 e nel 1992
A noi ricorda un popolare gioco televisivo, che si chiama “la ghigliottina”.
Ogni mattina, da almeno due mesi, leggiamo un nuovo nome come candidato alla Presidenza della Repubblica. Un nome che, dopo qualche giorno o settimana, poi viene ghigliottinato.
A nostro giudizio, è più divertente il gioco a premi TV: questa “ghigliottina” del Quirinale noi non la troviamo divertente, per nulla.
Però ne scriviamo, perché alcune di queste vicende potrebbero poi ritornare utili nella gestione delle posizioni investite.
Oggi ripartiamo da una recente dichiarazione del Primo Ministro italiano:
“Mi è venuto spontaneamente di chiedermi come mai dopo gli anni ’60 si sono interrotti i tassi di crescita e, come mi disse un amico, il giocattolo si è rotto”, ha detto oggi il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo intervento all’assemblea annuale di Confindustria. Il presidente del Consiglio ha provato a darsi una risposta: “Le mutazioni del quadro internazionale, Bretton Woods, il prezzo del petrolio, due guerre, la grande inflazione, hanno cambiato il quadro internazionale, ma anche in questo quadro così difficile alcuni Paesi hanno affrontato gli anni ’70 con successo e una caratteristica che separa gli altri Paesi dall’Italia è il sistema delle relazioni industriali che lì sono state buone, mentre da noi col finire degli anni ’60 si è assistito alla totale distruzione delle relazioni industriali. Perciò insisto su questo, perché niente è più facile che nel momento in cui il quadro cambia, le relazioni vadano particolarmente sotto pressione e invece bisogna essere capaci di tenerle”.
Il richiamo agli Anni Settanta noi lo troviamo appropriato: tanto che in questo Post noi ne scrivemmo a partire dall’agosto di due anni fa, e poi in modo regolare nei mesi successivi.
Gli anni Settanta, nel titolo che abbiamo selezionato per aprire questo Post, vengono poi associati ai primi anni Novanta.
La cosa ci ha colpiti nel profondo: come molti di voi ricorderanno, il 1978 ed il 1992 sono entrambi anni di particolare importanza, nella storia dell’economia italiana.
Nel 1978, fu decisa la partecipazione dell’Italia allo SME nel pieno della Seconda Crisi Energetica. Nel 1992, l’Italia fu costretta ad una dolorosissima svalutazione, a causa di un rialzo globale dei tassi ufficiali di interesse.
Fatto sta che nel 1992 le cose iniziano a non andare come si pensava. La Bundesbank aveva iniziato ad alzare i tassi nel triennio 1990-’92, al fine di contrastare l’accelerazione dei tassi d’inflazione dopo la riunificazione delle due Germanie. Se il costo del denaro tedesco era ancora del 6% nell’agosto del 1990, nel luglio del 1992 era salito all’8,75%. Inevitabilmente, l’Italia doveva seguirne le scelte (ah, quanto eravamo “sovrani” con la lira), altrimenti i capitali sarebbero defluiti verso la Germania, destabilizzando il cambio e minacciando la nostra permanenza nello SME. Ciampi i tassi effettivamente li alza, ma commette un errore pacchiano quell’estate, vale a dire di esternare il suo “dolore” per quella misura. E così, il 6 luglio alza il tasso ufficiale di sconto (TUS) dal 12% al 13%, ma già il 17 dello stesso mese si trova costretto a intervenire con un nuovo rialzo al 13,75%. Perché? I mercati non avevano digerito quella doglianza e i capitali avevano accentuato la fuga, specie dopo che la notte del 10 luglio il governo aveva imposto un prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti.
La drammatica estate ’92
Per tutta l’estate, Bankitalia cercò di difendere il cambio. Anzi, aveva iniziato a farlo da inizio anno, se è vero che nei primi 9 mesi dell’anno “brucia” riserve valutarie per 50 mila miliardi di lire (12 mila miliardi nel solo mese di luglio), qualcosa come oltre 25 miliardi di euro attuali. Tuttavia, a settembre la situazione diventa insostenibile. Di quel passo, Palazzo Koch sarebbe rimasta a corto di dollari, marchi, etc., per importare beni e servizi dall’estero. La bilancia dei pagamenti sarebbe entrata pericolosamente crisi. Da qui, la decisione di abbandonare lo SME attraverso la svalutazione della lira. In pochi mesi, il cambio contro il dollaro passa dai 1.078 lire di fine agosto ai 1.583 della primavera ’93.
Adesso ritorniamo al presente: solo 12 mesi fa, al momento della formazione del Governo Draghi, il panorama nazionale era dominato dall’unità di intenti, e dall’ottimismo e dalla positività.
Oggi, le cose non stanno più così: a distanza di soli 12 mesi, si respira un’aria di emergenza.
Tanto che, come abbiamo già visto in recenti episodi del passato, dall’estero arrivano “autorevoli” indicazioni su ciò che noi, in quanto Paese, dovremmo fare.
Il principale organo di informazione finanziaria del Pianeta, che si chiama Financial Times, la settimana scorsa ci ha informati che sarebbe preferibile Draghi a Berlusconi, come nuovo Presidente.
Dal Financial Times, ai mercati finanziari ed a Wall Street, il passo è brevissimo: e la Repubblica (che ha fatto da “organo ufficiale” del Governo in carica fin dal primo giorno) ci informa che anche Wall Street vorrebbe Draghi al Quirinale.
Magari, è vero. Magari no. Magari è lo stesso Draghi ad averlo raccontato a quotidiani che conosce benissimo.
Ciò che a noi investitori importa NON è questo: come investitori a noi importa di osservare che l’unanimità del 2021 non esiste più: oggi è tutti contro tutti. E anche Draghi contro tutti.
Come dice il Governatore Zaia: “ragionateci sopra”.