Larry Fink, i Fondi Comuni e la pubblicità che non si paga

week_04_july_2019_010png.png

Il signore che vedete qui sopra si chiama Larry Fink, è a capo di Blackrock, la più grande Società di Fondi Comuni del Pianeta, ed è un ottimo professionista. Non necessariamente un eroe, però, non un Lancillotto, non un Supereroe della Marvel.

L’articolo che gli è stato dedicato, questa settimana, dal maggiore quotidiano nazionale è imbarazzante.

Una intervista celebrativa (i più critici direbbero: genuflessa) che si apre con la descrizione di Fink come “uomo di Finanza più potente del Mondo”. Una autentica sciocchezza, che dimostra subito che chi intervista non sa che cosa siano i Fondi Comuni e gli ETF.

Potere Fink ne ha, questo è certo: lui, ed il suo esercito di venditori di Fondi Comuni, hanno il potere di occupare in modo militare i media, e quindi di convincere il pubblico dei risparmiatori che “non ci sono alternative”, che loro ed i loro Fondi Comuni dominano il Mondo, e che per il risparmiatore individuale quindi è necessario passare dal promotore finanziario e pagare il 3%-5% di commissioni ogni anno per avere in cambio strumenti che, in cinque casi su sei fanno PEGGIO del mercato. Stiamo parlando di soldi veri, altro che chiacchiere sul debito pubblio: e soldi che escono dalle vostre tasche, amici lettori.

L’articolo lo leggete qui di seguito, in basso, e per intero: giudicate voi. Non merita da parte nostra un commento sui contenuti: l’articolo di Fubini è, semplicemente, un ennesima conferma del ruolo della stampa in Italia quando si parla di risparmio e di investimenti. Un ruolo servile. Che da sempre fa l’interesse delle Reti di promozione finanziaria (Mediolanum, Fideuram, Generali, FINECO e le altre) e delle banche grandi come Intesa, Unicredit, UBI e le altre (Istituzioni che pagano la pubblicità sui quotidiani, e banche che tengono in vita i quotidiani in perdita grazie a “buoni rapporti di amicizia”). Mai, ma proprio mai, viene fatto l’interesse dell’investitore finale, che sia esso una famiglia oppure un’Istituzione. Un panorama triste e desolante, squallido.

Neppure una riga dei media nazionali sui Fondi Comuni che saltano per aria, neppure un commento, neppure un filo di rispetto per quei risparmiatori che hanno creduto ai promotori finanziari oppure a certi consulenti che selezionano i “migliori Fondi Comuni di Investimento” o peggio ancora “i migliori ETF”. Zero: la regola è fare finta di nulla. L’ipocrisia fatta a mestiere, un mestiere ben misero.

Naturalmente, in onda sulla medesima rete, trovate quelli che ridono perché “i dati dall’economia peggiorano ed i mercati salgono”: li vedete nell’immagine in fondo.

di Federico Fubini

Si può definire Larry Fink l’uomo di finanza più potente al mondo senza che nessuno si offenda. Trentuno anni fa, allora trentacinquenne, questo figlio di un negoziante di scarpe di Los Angeles ha fondato la sua azienda. Oggi BlackRock gestisce 6.500 miliardi di dollari dei clienti, pari a tre volte e mezzo il prodotto lordo italiano. Questa settimana Fink riunisce il «board» di BlackRock a Milano e ne approfitta per parlare con molti capi azienda nel Paese.

Lei ricorda spesso i salari stagnanti, i posti persi a causa della tecnologia e la rabbia populista che ne nasce. Si sente coinvolto?

«Tutti vogliono un futuro positivo. Ma nella società si sono diffusi timori: si comprende che in gran parte delle democrazie i governi oggi sono meno attrezzati per rispondere alle attese. E con le aziende che diventano sempre più grandi, più globali, più monumentali, la società mette più pressione su di loro. Per me e per noi di BlackRock rappresentare gli interessi dei nostri clienti è una responsabilità enorme. Ma è chiaro che in Europa e anche in Italia c’è costantemente una visione a breve termine».

Che intende dire?
«Gli europei hanno una visione più a breve rispetto ad altre parti del mondo». In che senso? «Nel modo in cui investite. Gli italiani, i francesi, i tedeschi. Mettete i vostri risparmi in un conto in banca, anche se ci sono tassi negativi».

In Italia le famiglie tengono così 1.360 miliardi.
«E lei come reporter dovrebbe scrivere che è una rovina. Una delle ragioni per cui l’Europa non migliora è che tutti questi soldi stanno dormendo, non sono al lavoro attivamente per i risparmiatori. Per questo credo sia più difficile in Europa che in America per la politica monetaria tradursi in un impatto economico positivo. E per questo l’Europa ha bisogno di più politica di bilancio».

Vuole dire, espansiva?
«Specialmente in Germania, sì, per stimolare». 
Alcuni però dicono che altrove, specie in Italia, non c’è spazio per aumentare l’investimento pubblico.

«No, l’Italia non ha quello spazio, chiaramente. Ma la Germania sì e dovrebbe essere leader in questo. Del resto abbiamo un problema simile anche in Cina, dove il tasso di risparmio è al 35% e il Paese dipende tanto dall’export. Ora che questo è in calo, i cinesi hanno bisogno di più crescita dall’interno».

Lei parla di «spirito animatore» e «scopo» di un’azienda, che contano come gli utili. Che intende?
«Pensi a Apple. Puoi comprare un prodotto meno caro, ovvio. Ma io posso dire che credo in ciò che fa Apple, in ciò che rappresenta. Penso di essere un consumatore normale e sono molto consapevole delle aziende da cui compro. Potrei nominarne alcune da cui non comprerei nulla, perché non credo in quel che fanno o perché sono di un Paese sleale nel commercio. Questo desiderio di scegliere sui valori è una tendenza diffusa, specie fra i millennials».

Porterà a una maggiore concentrazione a vantaggio di poche grandi imprese?
«Succederà. Sta già succedendo. Ci saranno meno aziende con una presa e un ruolo più ampi nella società. Per questo dovranno avere una voce più forte».

Perché lei propone che si producano dati sull’impatto delle attività economiche sull’ambiente?
«Ne abbiamo bisogno per provare che gli investimenti in imprese che rispettano obiettivi ambientali o di sostenibilità producono risultati e rendimenti validi. Senza dati, si potrebbe generare una bolla sugli investimenti definiti sostenibili. Anche perché non ci possiamo permettere di avere un pianeta più pulito a costi socialmente regressivi».

La transizione all’energia pulita non deve pesare sui ceti medio-bassi?«Esatto. E mi fa paura che l’Europa non abbia una rete elettrica continentale. Il Nord Europa produce un surplus di idroelettrico. Eppure l’Europa dipende così tanto dal gas russo, malgrado la quantità disponibile da Israele, l’Egitto o Cipro. Perché secondo lei non si costruisce un gasdotto lì?». 

Il costo del gas russo non è noto, i contratti sono segreti.
«Si stima stiate pagando quasi 10 dollari per unità di prodotto, mentre in America è fra 2 o 2,5. C’è un gasdotto fra l’Algeria e la Spagna, ma finisce ai Pirenei. Perché? È un problema. Israele e l’Egitto erano più vicine della Russia, l’ultima volta che ho guardato la cartina!».

Oltre l’uso del risparmio, cosa consiglia all’Italia per uscire dalla crescita zero?
«Non è un destino! Direi le stesse cose che dico ai giapponesi, che hanno gli stessi problemi dell’Italia: bassa crescita, demografia debole. Sono ottimista sul Giappone, un leader globale nella robotica, perché rappresenta la prova di come una società evolve con la tecnologia. Accettate il fatto che avrete meno lavoratori, trasformatelo in un vantaggio. Invece di essere una bomba a orologeria, la demografia in declino può spingere un Paese ad adattarsi più in fretta al cambio tecnologico. Più produttività significa anche salari più alti. Questo è il tipo di programmazione che serve, non si cambiano i comportamenti in un giorno».

week_02_July_2019_036.png